di Yassir Gorezt
su L’ERNESTO del 16/05/2008
Intervista a Fosco Giannini, direttore de l’ernesto
E’ uscita oggi (venerdi 16 maggio) su Liberazione un’ ampia intervista al compagno Paolo Ferrero, che già nel titolo (“Subito l’opposizione a Berlusconi. La costituente ? Spacca la sinistra “) appare “pepata” e provocatoria. Ne parliamo con il compagno Fosco Giannini, membro del Cpn, direttore de l’ernesto.
Molte e pregnanti sono le questioni che Ferrero pone, in vista del Congresso del PRC, nell’intervista su Liberazione. Vuoi provare ad entrare nel merito di tali questioni ?
Le questioni poste da Ferrero sono davvero rilevanti. Anticipo subito che oltre ad essere tali, sono anche – dal mio punto di vista – particolarmente disorientanti e (sul piano politico e culturale) equivoche, ed è dunque importante affrontarle e smontarle immediatamente…
Puoi iniziare ad affrontare la prima delle questioni poste da Ferrero: le ragioni della nostra drammatica sconfitta e delle responsabilità della stessa… Cosa pensi del modo con il quale Ferrero “legge” tali questioni ?
Lo dico con franchezza: è un modo particolarmente ambiguo e pericoloso, poiché non tende a rivelare la verità, ma tende – strumentalmente – a rafforzare un’idea di parte: quella – appunto – di Ferrero e della sua coalizione congressuale, un’idea volta a proporre una inesistente “terza via” tra la costituente di sinistra rilanciata da Vendola e Giordano (anche dopo la sconfitta) e il rilancio, in Italia, di un partito comunista di lotta e di massa, come noi lo proponiamo. Ma veniamo al merito. Ferrero individua due questioni quali basi materiali della sconfitta: la delusione provocata nel nostro popolo dal governo Prodi e la costruzione sbagliata della Sinistra Arcobaleno, sbagliata poiché condotta (parole di Ferrero) «attraverso un’operazione politica di vertice». Cosa vuol dire? Che se non fosse stata di vertice sarebbe andata bene? In verità è ciò a cui crede Ferrero, quando, riproponendo “la federazione delle sinistre” (con gli stessi soggetti dell’Arcobaleno…) rivela che la sua differenza dalla proposta congressuale Giordano –Vendola non è così grande e che, anzi, se non è zuppa è pan bagnato… Ora, Ferrero ha il buon gusto di affermare che lui stesso è da ritenersi uno dei maggiori responsabili della sconfitta, ed è vero: Ferrero è uno dei massimi responsabili della nostra disfatta, poiché ha appoggiato pienamente la linea del Congresso di Venezia, dove è stata ratificata la linea di tale disfatta, e ha appoggiato sino alla fine il governo Prodi, anche nel momento in cui si doveva invece rompere sul Protocollo del 23 luglio (welfare , pensioni, ratifica della Legge 30). Posso ricordare che i compagni de l’ernesto (chi parla al Senato e il compagno Pegolo alla Camera) avevano –al contrario di Ferrero – chiesto al Partito di non votare il Protocollo ed uscire dal governo, per non essere complici di una politica antipopolare che ci avrebbe (come è stato) fatto pagare prezzi salatissimi sia dal punto di vista dei rapporti di massa che dal punto di vista elettorale? Posso ricordalo?
Ma la questione oggi è: Ferrero ammette le sue gravi responsabilità, ma è come se volesse cancellarle per il solo fatto di averle ammesse. Non è così. Le responsabilità rimangono. E soprattutto vi è un punto su cui riflettere: Ferrero assume sì le sue gravi responsabilità (da costruttore – e non da comprimario – del Congresso di Venezia e da ministro complice delle politiche ultragoverniste ), ma non avanza autocritiche serie in relazioni alle cause strutturali della sconfitta. Quando, ad esempio, parla dell’Arcobaleno come un’operazione politica di vertice, non dice chiaramente che l’errore è stata la scelta in sè dell’Arcobaleno, ma dice che l’Arcobalerno si poteva fare meglio, attraverso più partecipazione e più relazioni sociali. Queste due osservazioni sono scontate, ma sono fuorvianti, poiché la questione vera, tutta materiale, è che attraverso l’Arcobaleno (o la confusa Federazione di sinistra che continua a proporre Ferrero) muore l’autonomia del partito comunista, e senza un partito comunista autonomo, forte, radicato e di lotta si spegne la più forte spinta anticapitalista e antimperialista; il quadro della trasformazione sociale si restringe all’interno di un orizzonte socialdemocratico (unità attorno a Mussi) e si indebolisce fortemente lo stesso obiettivo dell’unità delle sinistre. Peraltro, Ferrero, non avanza autocritiche nemmeno su di un punto cruciale che ha caratterizzato il Congresso di Venezia e che lo stesso Ferrero assunse completamente: la mitizzazione dei movimenti quali soggetti che avrebbero comunque sopperito al deficit di trasformazione sociale dell’Unione e che avrebbero accettato una sorta di divisione del lavoro col PRC, e, cioè, Rifondazione dentro il governo a mediare e i movimenti fuori a spingere a sinistra. Da dove viene questa mitizzazione dei movimenti, della spontaneità sociale? Da una sottovalutazione del ruolo del partito comunista che Ferrero ha condiviso strutturalmente con Bertinotti e che ancora – nell’essenza- fa propria quando, di nuovo, propone il superamento dell’autonomia comunista in una Federazione di sinistra su basi sociali.
Veniamo, allora, alla proposta strategica che avanza Ferrero, nell’intervista, relativamente al nuovo PRC. Che cosa dovrebbe essere per Ferrero?
Mi pare che la proposta di Ferrero sia – lasciami dire così – contemporaneamente chiara e confusa. E’ chiara quando dice: «Io penso ad una rete di relazioni stabili, tra soggetti organizzati e singoli…ecc..». E qui si riferisce chiaramente al superamento dell’autonomia comunista attraverso la riproposizione di una sorta di Izquierda Unida italiana (e ricordiamo quanto quel modello, in Spagna, ma anche in Grecia e in Finlandia, sia miseramente fallito e che prezzo abbiano pagato i partiti comunisti – in termini di autoliquidazione – all’interno di quelle esperienze) nella quale trascinare il PRC. Ma la proposta di Ferrero si fa, contemporaneamente, confusa, quando parla di rilancio del PRC. Ma questa confusione, è bene dirlo, è voluta e nel contempo classica: si lancia l’Izquierda Unida e, insieme, l’autonomia del PRC. Così si annebbia tutto, si disorientano i compagni e le compagne, come sono stati disorientati (e in ultima analisi “fregati”), un tempo, da Occhetto e poi da Bertinotti, che ora, attraverso Vendola e Migliore, ha almeno il pregio di dire le cose come stanno: fare una costituente di sinistra al posto del PRC. Anche Ferrero vuol fare la stessa costituente di sinistra (l’Izquierda) ma non lo dice chiaramente. L’ambiguità (che va smascherata) è il destino storico delle “terze posizioni”, e nel contempo è la loro pericolosità. Resta il fatto che se si vuole davvero rilanciare, nel nostro Paese, un partito comunista all’altezza dei tempi e dell’odierno scontro di classe, questo partito deve innanzitutto partire da una propria, profonda, autonomia: politica culturale, organizzativa, persino economica e che le inevitabili svendite di sovranità che comporta un’Izquierda minano alla fonte tale autonomia e lo stesso partito comunista. Vorrei rimarcare il fatto che l’autonomia (dai padroni e dalle forze di sinistra moderate), per un partito comunista, è stata sempre una necessità prioritaria. Ma credo che oggi lo sia più che mai, nella fase successiva alla sconfitta del movimento comunista e rivoluzionario e di fronte all’esigenza di rimettere a fuoco ( rifondare) un pensiero ed una prassi adeguate alla nuova fase.
Nella citata intervista a Ferrero vi è una domanda sul comunismo e Ferrero cita “i baffi di Stalin” e – alludendo a Vendola- il comunismo ridotto ad una “domanda”. Che ne pensi di questa riflessione di Ferrero?
E’ una riflessione di basso livello e di cattivo gusto: capisco l’allusione a Vendola, a proposito del comunismo ridotto ad una “domanda”, ma non capisco a chi alluda, quando parla di qualcuno che vorrebbe imbalsamarlo nei baffoni di Stalin. Forse Ferrero frequenta qualche vecchio stalinista a noi sconosciuto. Se invece allude (e credo che faccia questo) a chi di nuovo lotta per l’autonomia del partito comunista e per l’unità dei comunisti, credo allora che Ferrero scivoli su di una buccia di banana falsa e volgare, in quanto non c’è relazione alcuna tra la riproposizione di un partito comunista autonomo, l’unità dei comunisti ed i baffi di Stalin. Piuttosto, noto che Ferrero utilizza il più vecchio dei metodi, per liquidare l’autonomia comunista: quella volta alla comparazione tra comunismo e stalinismo, cosa che hanno sempre fatto i socialdemocratici, i padroni e che da anni fa anche Berlusconi. Ma quale stalinismo! Impegniamoci, piuttosto, a ricostruire, nella lotta sociale e nella ricerca politico-teorica aperta e non dogmatica, un partito comunista legato al movimento operaio complessivo, capace di interpretare le grandi contraddizioni sociali e dare risposte ai nuovi problemi posti dalla fase che viviamo: immigrazione, unità in senso anticapitalista dei lavoratori bianchi e neri, proletariato metropolitano, unità dei lavoratori “garantiti” e lavoratori precari. Siamo seri, per favore e lasciamo i baffi di Stalin alle inquietudini dei vecchi socialdemocratici .
Tuttavia, Ferrero indica cos’ è , per lui, il comunismo: il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Scusami, ma , sinceramente, mi viene un po’ da ridere. Questa frase la ritrova ormai ovunque e quando non si sa cosa dire la si cita. Chi fa così la riduce a frase da cioccolatini perugina. Marx l’aveva coniata per indicare il fluire dialettico della storia e del processo rivoluzionario e lo faceva per evitare ogni schematismo nella lettura degli eventi. Tuttavia nè Marx, né Lenin, né Gramsci, né ogni altro grande rivoluzionario dell’800 e del ‘900 hanno racchiuso tutto l’orizzonte comunista entro questo quadro neoeracliteo, poiché se così fosse stato (o fosse) il progetto comunista sarebbe ben poca cosa, anzi sarebbe un nulla. Se il progetto comunista fosse solo ciò che indica Ferrero (restringendo Marx e l’intera storia comunista e rivoluzionaria al “movimento reale ecc…” il comunismo sarebbe privato di ogni progetto (che fine farebbe la ricerca della forma concreta del superamento dei rapporti di produzione capitalistici e dell’imperialismo internazionale? Del potere e della democrazia socialista?). In verità, enucleare quella concezione che cita
Ferrero dal contesto generale del progetto (e dell’esperienza concreta del comunismo) significa prendere una scorciatoia intellettualmente opportunista volta a non dire nulla per non impegnarsi e non sbagliare. In questo modo, però, si finisce solo per non dire assolutamente nulla, e quest’afasia politica e teorica è l’altra faccia della rinuncia a riproporre con forza e chiarezza l’esigenza (storica e sociale) del partito comunista.
Ferrero afferma anche che il progetto di costituente comunista sarebbe gemello al progetto di costituente socialista, poiché entrambi minerebbe il progetto di rifondazione comunista.
E’ sconcertante. Proviamo piuttosto a ragionare. Lo scorso 17 aprile il Manifesto, Liberazione e la grande stampa nazionale pubblicano un Appello di cento grandi personalità del mondo operaio e intellettuale. Esso indica tra le cause della nostra drammatica sconfitta la delusione provocata dal governo Prodi e il fatto che, attraverso la proposta dell’Arcobaleno, siano stati sottratti, al nostro elettorato, gli storici punti di riferimento comunisti e di sinistra. A fronte del disastro i cento dell’Appello avanzano una proposta: che il Prc e il Pdci tornino ad unirsi in un solo partito comunista, un partito di lotta che si proponga come cuore dell’opposizione a Berlusconi e motore di una nuova unità a sinistra, rispettosa delle varie autonomie (comunisti e forze di sinistra) e ben lontana dalla fallimentare e (letteralmente) immotivata precipitazione organizzativistica dell’Arcobaleno. A tale proposta l’intero gruppo dirigente del Prc (da Giordano a Ferrero) risponde – stizzito – di no. Il gruppo dirigente del Pdci risponde di si, chiarendo che il proprio partito è disponibile ad un processo di riunificazione, per tornare alle origini della rifondazione comunista e offrire un punto di riferimento alla vasta diaspora comunista italiana. Chi scrive è d’accordo con le tesi dell’Appello e rimarca il fatto che il no di Giordano e Ferrero sia stato assunto da diversi interlocutori (non certo dai comunisti “di base”) come scontato e non sia stato per nulla indagato. In verità il no alla proposta di riunificare i due partiti comunisti italiani non è stato adeguatamente motivato e l’unico barlume argomentativo – che ha unito Giordano e Ferrero – è stato quello (molto vago) secondo il quale il Prc avrebbe da tempo assunto un’ “innovazione” alla quale il Pdci sarebbe estraneo. Prendiamo le questioni di petto: un processo di riunificazione dei due partiti comunisti darebbe, se ben condotto, una nuova passione al popolo comunista, oggi disorientato e spinto all’autoliquidazione. Rispetto ad un obiettivo così alto dovremmo davvero ritenere un impedimento le innovazioni del Prc? Occorre, da questo punto di vista, soffermarsi su tali innovazioni. Sarebbe un’innovazione impedente la cancellazione formale, dal corredo teorico del Prc, della categoria di imperialismo? Crediamo di no, per il semplice motivo che essa è stata smentita dai fatti, nel senso che l’imperialismo è oggi più vivo che mai e che anche i dirigenti del Prc – di fronte alla durezza delle guerre imperialiste – tendono a rimuovere la loro precedente tesi. Sarebbe un’innovazione impedente la fragile teorizzazione bertinottiana secondo la quale il ruolo di intellettuale collettivo non dovrebbe essere più assegnato al partito comunista, alla sinistra, ma direttamente allo spontaneismo sociale? Non crediamo: è stato lo stesso Alfonso Gianni, testa pensante del bertinottismo, ad affermare, dopo la sconfitta elettorale e il voto operaio passato alla Lega, che il senso delle masse si è perso e che è ormai tempo che siano i comunisti e la sinistra a ricostruire un senso politico e di massa. Sarebbe un’innovazione impedente l’ormai ingiallita teorizzazione bertinottiana secondo la quale la rottura da parte del Prc con il primo governo Prodi doveva essere una rottura “fondante” della stessa rifondazione comunista? Il nefasto governismo dell’ultimo Prc ha smentito clamorosamente tale teorizzazione e ha posto il problema, per tutti i comunisti, di uscire dal rischio del cretinismo parlamentare e tornare alla testa delle lotte. Sarebbe un’innovazione impedente l’assunzione da parte del Prc della categoria della non violenza? Lo sarebbe se essa si trasformasse in una rinuncia al conflitto e alla trasformazione sociale. Poiché nessuno, nel Prc, interpreta la non violenza in questo senso, la questione appare di lana caprina, poiché non vi è un comunista, nei due partiti italiani, che pensa alla lotta armata e alla presa, lunedì prossimo, del Palazzo d’Inverno. Sarebbe un’innovazione impedente l’affermazione (Bertinotti-Gianni) di qualche tempo fa, secondo la quale «i grandi pensatori e i rivoluzionari del ’900 sarebbero tutti morti e non solo fisicamente» ? Non crediamo, poiché la sua estemporaneità non le ha permesso di ucciderli davvero, anche nel senso comune dei dirigenti e della base Prc.
Qual è il punto vero, dunque, rispetto alla proposta avanzata dai cento dell’Appello, assunta dal gruppo dirigente del Pdci e volta al rilancio – attraverso la riunificazione e la rimessa in campo di una forza di opposizione sociale – di un partito comunista, dai caratteri di massa, in Italia?
Ci sembra chiaro: il punto vero è se si vuole o no ricostruire il partito comunista. Se non si vuol farlo lo si dica chiaramente, senza cercare astruse motivazioni. A noi sembra che il rilancio di una forza comunista, anticapitalista, non sia una questione ideologica ma un’esigenza sociale (la guerra segna il nostro tempo e il trasferimento di quote di salario verso il profitto è il più imponente da 50 anni a questa parte). L’esigenza dell’unità dei comunisti trova oggi, per realizzarsi, un terreno favorevole. Chi si sottrae a tale compito vuol dire che pensa a costruire qualcosa d’altro, a rianimare il cadavere dell’Arcobaleno. E se ne assumerà la responsabilità.
Dunque, non sei proprio d’accordo su nulla, con Ferrero?
No, su un punto sono d’accordo: che occorre ripartire dall’opposizione a Berlusconi. Ma ciò lo si può fare a partire dal rilancio di un partito comunista forte, che nel conflitto esprima anche un progetto di trasformazione in senso socialista e sia il cuore unitario della sinistra d’alternativa.