di Gianluigi Pegolo
Vi è un punto, nel nostro dibattito congressuale, che merita un approfondimento. Mi riferisco alla natura del soggetto che ci si propone di costruire per uscire dal guado in cui ci si è cacciati, dopo la disastrosa sconfitta elettorale.
Al di là delle diversità che pure emergono nelle interviste a Vendola e a Ferrero, in esse si coglie un approccio comune. In entrambe le posizioni, infatti, la soluzione ai nostri problemi viene cercata nella costruzione di un nuovo soggetto della sinistra. Nell’un caso, si allude – mi pare evidente – ad una formazione che supera definitivamente Rifondazione Comunista, nell’altro si prospetta una struttura reticolare su base federale. Ora, ciò che proprio non convince in queste proposte è la riproposizione di un’impostazione che ci ha condotti al disastro. E, a tale riguardo, non può sfuggire il paradosso di posizioni in cui, da un lato, si riconosce autocriticamente il fallimento dell’Arcobaleno come proposta elettorale e, dall’altro, lo si ripropone come proposta politica. Per questo occorre fare chiarezza. La sconfitta elettorale è la conseguenza diretta della scelta di dar vita ad un nuovo soggetto politico e la ragione sta nel suo carattere ibrido e contraddittorio. Chi può ragionevolmente pensare che una nuova versione dell’Arcobaleno eviterà questi rischi? E ancora, come si può proporla se una parte delle forze che diedero vita a quell’esperienza infausta si sono ritirate e altre sono in dissolvimento? Queste sono le ragioni banali per cui le riformulazioni della proposta del soggetto unitario e plurale non sono credibili. Esse possono condurre alla costruzione di soggetti moderati, nella prospettiva probabile di un successivo assorbimento nel Pd, o a forme ibride destinate ad evaporare alla prima stretta politica.
Significa questo che il tema dell’unità a sinistra va derubricato? No, ma che va declinato secondo l’unica formula che garantisce il massimo di efficacia e cioè la convergenza su progetti, iniziative e obiettivi politici di una pluralità di forze che conservano la loro piena autonomia. Il concetto che meglio si approssima a questa idea è quello dell’unità d’azione, mentre tutte quelle soluzioni organizzativistiche che riducono l’autonomia delle singole forze (dal partito unico, al patto federativo, o via dicendo), finiscono inevitabilmente per seguire la logica nefasta e perdente dei contenitori che si reggono sul principio del minimo comun denominatore.
Il punto, tuttavia, è che anche riprecisando in questo modo l’unità della sinistra non si dà risposta alla questione principale e cioè al modo con cui si può innervare la sinistra, per darle un profilo avanzato. E qui non se ne esce: o in campo vi è un soggetto forte, che assume il conflitto di classe come centro della propria attività e l’anticapitalismo come orizzonte, o viene a mancare quella sollecitazione al cambiamento che può imprimere all’intera sinistra la spinta fondamentale per reggere una fase non breve di opposizione. E’ per questo che occorre un forza comunista, e ciò vale a maggior misura in un paese come l’Italia in cui tale presenza ha una sua plausibilità poltica, sociale e culturale.
Paradossalmente alcuni compagni, di fronte alla proposta di impegnare Rifondazione nella costruzione di un grande partito comunista, si ritraggono, quando addirittura non considerano questa proposta come alternativa all’ispirazione originaria del nostro partito. Per dirla in breve: un partito comunista rifondato sarebbe in contraddizione con la rifondazione comunista e con la stessa idea di unità della sinistra. Temo che dietro queste asserzioni vi sia il lascito di quella devastante opera di liquidazione della cultura politica del partito portata avanti in questi anni, in modo particolare da Bertinotti, che in nome di un “nuovismo” declinato impropriamente come “innovazione” ha condotto a teorizzare la necessità di un soggetto politico indeterminato, dagli eclettici riferimenti sociali, e dalla debole cultura politica. L’Arcobaleno è figlio di questa deriva. Che il comunismo, poi, si riduca a semplice tendenza culturale non è strano, era pienamente iscritto nel percorso che purtroppo molti compagni, oggi giustamente critici, hanno a suo tempo condiviso. E, invece, la costruzione di un partito comunista resta la missione originaria di Rifondazione Comunista che oggi va ripresa. Alcuni temono che questa proposta ricada nei vizi di un approccio tutto identitario, che in realtà non basti una falce e martello e un po’ di gente che si aggrega. Hanno ragione. Non bastano, occorre che si attivi un processo sociale, che non ci si limiti a fusioni organizzative, che si delinei un progetto. Dirò di più, occorre che si parta da una esplicita autocritica delle forze comuniste, a partire dal nostro partito, che metta in discussione le inclinazioni governiste, la preminenza data alla manovra tattica, il disimpegno dalla costruzione di un autentico radicamento sociale. Un partito comunista passa oggi più di ieri per una radicale svolta nella linea e nelle pratiche. Ma il problema resta: vogliamo impegnare il nostro partito in questa operazione o spostiamo il centro della nostra iniziativa nella costruzione di un improbabile soggetto unitario della sinistra che alla prima occasione si spaccherà intorno alla questione del rapporto col Pd? Questo è il nodo che dovremmo affrontare nel nostro congresso.