di Giancarlo Lannutti
da Liberazione
Da quando è diventato “sapiens”, cioè essere pensante e ragionante, la storia dell’uomo è stata sempre caratterizzata da un desiderio insopprimibile di spingersi al di là dei confini del suo mondo abituale per sfidare l’ignoto, per esplorare quello che c’è al di là dell’orizzonte conosciuto. Lo testimoniano tutte le storie e le leggende dell’antichità, dal volo sfortunato di Icaro al viaggio avventuroso di Ulisse e al mito delle Colonne di Ercole; racconti ed eventi che hanno nutrito la nostra gioventù sui banchi di scuola e che hanno costituito l’antefatto, o piuttosto il primo atto, di una infinita serie di esplorazioni anch’esse diventate spesso leggendarie, fino a quelle dei giorni nostri, come le spedizioni polari, la cosiddetta conquista del Terzo Polo (cioè delle 14 vette himalayane superiori agli 8mila metri) e – ultimo in ordine di tempo ma non di importanza – il volo nello spazio e lo sbarco sulla Luna. Ecco: il volo, lo spazio, la Luna; fra tutte le sfide verso l’ignoto questa è forse la più antica, la più ambita e anche la più sofferta, l’ansia ancestrale di “fare come gli uccelli”, di infrangere le catene che ci tengono con i piedi per terra, anche quando non sapevamo (o non sapevano ancora) che la Terra è rotonda e che quelle catene si chiamano forza di gravità. E quale nome se non quello di Yuri Gagarin può meglio di ogni altro simboleggiare quell’ansia, quella spinta e – alla fine – quella conquista? Gagarin, il piccolo uomo che per primo nella storia dell’umanità ha provato l’emozione e il privilegio di librarsi non solo nel “nostro” cielo ma addirittura alle soglie delle profondità nere del cosmo.
Proprio queste, in quello storico mattino del 12 aprile 1961, furono le sue prime parole da lassù: «La Terra è azzurra, enorme, e il cosmo appare nerissimo». A nessuno prima di lui era mai toccato di vedere sotto di sé il suo mondo come una enorme palla azzurra librata davanti all’infinito. Oggi il volo spaziale è diventato quasi una routine, ci vogliono tragedie come quella dello Shuttle Columbia o avventure come quella recentissima del Discovery per guadagnarsi grossi titoli sui giornali. Ma quel mattino quasi primaverile di 44 anni fa le prime pagine non parlavano di altro, le edizioni straordinarie si succedevano freneticamente e andavano a ruba, il mondo intero stava con il fiato sospeso e con gli occhi rivolti verso il cielo, anche se il primo esploratore del cosmo non era certamente visibile da quaggiù. A parte gli scienziati e i tecnici, le prime a vederlo furono, subito dopo il suo atterraggio nella steppa, una contadina e la sua bambina. Per prudenza Gagarin – a differenza di quelli che lo hanno seguito – non era sceso fino a terra all’interno della Vostok ma si era lanciato con il seggiolino eiettabile; le due donne lo videro piovere dal cielo, con l’insolita e vistosa tuta spaziale di un vivo colore arancione. Gagarin colse la loro sorpresa, la loro esitazione, quasi il loro timore, e andando loro incontro esclamò sorridendo: «Sono dei vostri, compagne, dei vostri!». Un incontro storico nella sua semplicità, fra l’uomo che tornava da “fuori del mondo” e due semplici donne il cui orizzonte non andava probabilmente al di là della steppa. Niente potrebbe esprimere in modo altrettanto efficace il rapporto emotivo che legava in quel giorno di aprile gli uomini della Terra al piccolo uomo che per primo l’aveva lasciata per lanciare uno sguardo sia pure fuggevole (il suo volo durò 108 minuti) nel profondo del cosmo. Ma anche la personalità di Gagarin era in un certo senso anticipatrice di quella “normalità”, di quella routine dello spazio cui sopra accennavo e che ha già portato in orbita uomini e donne delle più diverse nazionalità e, accanto agli astronauti “professionisti”, anche scienziati, ricercatori, un “anziano” come John Glenn (il primo astronauta Usa, tornato in orbita all’età di 77 anni) e addirittura, a bordo delle Soyuz-Tm russe, un politico e i primi tre “turisti” spaziali. Gagarin – 27enne al momento del suo volo – non era infatti né un superman né un rambo. Figlio di un falegname di Smolensk, veniva da una famiglia di lavoratori ed era per così dire l’esempio tipico dell'”homo sovieticus” di allora; intelligente e tenace quanto modesto, si guadagnò i galloni di pilota collaudatore dell’Aviazione rossa e di lì passò nelle file degli aspiranti cosmonauti. Proprio questa sua “normalità” fu probabilmente una delle ragioni per cui fu scelto per il primo volo orbitale; e a quella normalità rimase fedele anche dopo, senza montarsi la testa, senza atteggiarsi a “star” o a personaggio storico. Quando fu lanciato, alle 9.07 ora di Mosca del 12 aprile 1961, negli Usa era ancora notte fonda e per la neonata Amministrazione Kennedy fu un brusco e amaro risveglio. In fretta e furia fu organizzato il lancio dell’astronauta Alan Shepard avvenuto ventitré giorni dopo, ma si trattava solo di un volo suborbitale di un quarto d’ora, cancellato di fatto da quello del sovietico Gherman Titov che il 6 agosto successivo rimase in orbita per ben 25 ore; ci sarebbero voluti ancora altri sei mesi perché il primo americano, John Glenn, andasse in orbita girando per tre volte intorno alla Terra. Per l’Urss sarebbero stati ancora anni di primati (prima donna nel cosmo, primo volo in coppia, primo razzo sulla Luna, prima “passeggiata spaziale” ecc.); e partì proprio da lì, da questo gap, la sfida kennediana per la Luna, una sfida nella quale gli aspetti politici non erano inferiori, forse anzi erano addirittura prevalenti, rispetto a quelli tecnici e scientifici. La sfida, come si sa, fu vinta dagli Usa, ma riprese poi con il successo sovietico nell’allestimento delle stazioni spaziali permanenti, fino alla odierna attiva collaborazione sulla Stazione orbitante internazionale. Di quella sfida il motore, la scintilla fu proprio il volo di Yuri Gagarin, fu anche grazie a lui che otto anni dopo, il 20 luglio 1969, Neil Armstrong mise per primo i piedi sulla Luna. Ma a Yuri non fu dato di vederlo: proseguendo con semplicità nel suo lavoro di pilota collaudatore era morto sedici mesi prima, il 27 marzo 1968, appena 34enne, ai comandi di un Mig per un banale incidente di volo. Lo spazio e le stelle erano stati con lui più clementi della normale routine di quaggiù.