Viaggio nella città più bertinottiana d’Italia. Dove i giovani non votano e i vecchi delusi si interrogano
da Il Messagero
di Michele Concina
LIVORNO – Pascolavano a testa china, da bravi dinosauri, convinti che il loro mondo sarebbe rimasto intatto in eterno. Non hanno visto, quelli di Rifondazione comunista, il meteorite che calava dal cielo, ad annientarli o quasi. Solo adesso, frastornati e increduli, ricordano quei segnali. Quel fischio, quello spostamento d’aria. Si domandano come è potuto succedere, meditano smarriti su un futuro a dir poco eventuale. Per leggere il dramma di militanti e quadri, il posto giusto è Livorno , la città più rifondarola d’Italia: 1620 iscritti (ma dieci anni fa erano quasi 2300); il 16 per cento dei voti da soli alle politiche del 2006, precipitato al 6 domenica scorsa nonostante il cartello Arcobaleno con Verdi, Pdci e sinistra ex Ds. O forse, proprio a causa di quell’alleanza.
«C’erano, le avvisaglie. C’erano eccome» riconosce oggi Luciano Traversi, 82 anni, ex operaio del cantiere navale. «Il teatro mezzo vuoto che ha accolto Fausto Bertinotti, i fischi. E poi la gente nelle fabbriche, nei mercati, che ci rinfacciava la partecipazione al governo. Ma non avrei mai pensato che potessimo finire così, addirittura fuori dal Parlamento». Durante la campagna elettorale Massimo De Santi, docente di Psicologia sociale a Pisa, ha accompagnato il segretario Franco Giordano ai cancelli delle acciaierie di Piombino. «Gli operai neppure lo riconoscevano. Allora noi lo presentavamo, invitavamo i lavoratori a fargli domande. E loro: compagno, dopo sedici ore qui dentro non mi viene in mente proprio nulla».
Lunedì pomeriggio, i conti del disastro. «Si è visto chiaro che ai nostri elettori il simbolo nuovo non era andato giù per niente», riferisce Stefano Freani, 43 anni, impiegato pubblico. «In gran parte hanno scelto il ”voto utile”, utile contro Berlusconi: il Partito democratico. Qualcuno, i due micro-partitini con la falce e martello nel simbolo. Moltissimi l’astensione o la scheda nulla». Specialmente i giovani. Fulvia Bilancieri, da scrutatrice a Castagneto, ha potuto condurre un test limitato ma significativo. «Gli elettori sotto i 25 anni quelli che votavano solo per la Camera – erano 19 in tutto. Otto non si sono neppure presentati al seggio. Fra gli 11 che hanno votato, cinque hanno lasciato in bianco la scheda». Niccolò Gherarducci, studente a Scienze politiche, ha proprio quell’età lì, 22 anni; e sui motivi della sconfitta ha le idee chiare. «La nostra partecipazione al governo è stata vista come un tradimento. Insomma, come si fa? Il 20 ottobre eravamo un milione, a Roma, in piazza contro il protocollo sul welfare, e poche settimane dopo il partito lo ha firmato».
Non ce n’è uno, fra i militanti, che non voglia mandare a casa i dirigenti. Sono stati accontentati subito: oggi, al Comitato politico nazionale, Giordano e il resto del vertice si presentano dimissionari. Ma in parecchi pensano che non basta sostituire l’autista, occorre cambiare macchina. «Il distacco dalla nostra gente nasce dall’esperienza di governo, ma c’è il rischio che diventi strutturale, se non riusciamo a dare risposte alle domande di base, reddito, casa, lavoro, servizi», avverte il giovane segretario della federazione livornese, Alessandro Trotta. «Bisogna rifare da capo l’analisi sociale, siamo indietro di vent’anni», propone Bilancieri. Ma nello stesso tempo «serve un partito all’antica, strutturato in modo capillare sul territorio. L’americanizzazione della politica lascia fuori troppa gente».
E’ una lezione che la Lega ha capito prima degli altri, spiega De Santi: la politica virtuale non è tutto. «Non basta andare a Porta a porta. La Lega ci bussa, alle porte; suona i campanelli, e guadagna voti. Anche perché sa parlare chiaro, questo sì questo no; l’elettore sa cosa aspettarsi». Per esempio sulla criminalità, compresa quella degli immigrati: «Non si può difendere l’indifendibile», si accalora Mauro Grassi, 52 anni, portuale. «Anche l’indulto, ci è toccato appoggiare». Di certo, tutti i rifondaroli che incontri non vogliono più sentir parlare di cartelli e alleanze scolorite. «Quello che serve è un partito che torni a chiamarsi comunista», proclama il giovanissimo Gherarducci. Dal buio della disfatta elettorale, quelli di Livorno cercheranno di rifondare Rifondazione.