- di Gennaro Carotenuto – www.gennarocarotenuto.it
(di ritorno da Caracas) La stretta vittoria di Nicolás Maduro (50,6% contro 49% con Capriles che chiede il riconteggio dei voti) come candidato della continuità con Hugo Chávez nelle elezioni presidenziali venezuelane apre e allo stesso tempo chiude il dibattito sulla prosecuzione del processo bolivariano. Lo chiude, testimoniando anche in Venezuela la solidità del processo democratico nel momento nel quale il candidato dell’opposizione, Enrique Capriles, offre allo stesso tempo un discorso progressista apparentemente analogo a quello della sinistra, accompagnato da un disprezzo e da una denigrazione tipicamente classista verso un processo del quale non può più disconoscere la grandezza.
Capriles, fin da ottobre ma con rinnovata lena durante questa campagna, ha riconosciuto la legittimazione di un’egemonia culturale della sinistra nell’America latina del XXI secolo, che ha sostituito l’inservibile armamentario neoliberale, ed ha –come ossimoro e contraddizione- avocato alla classe dirigente tradizionale –quella stessa del neoliberismo- il ruolo di condurre tale processo. Ma allo stesso tempo il dibattito è aperto in più punti. Nicolás Maduro ha ottenuto un risultato straordinario laddove non era scontato per nessuno che un processo così identificato con la figura di Hugo Chávez potesse sopravvivere alla scomparsa di uno dei dirigenti politici più importanti di tutta la storia latinoamericana. Un certo trionfalismo del campo popolare, che chi scrive ha colto con preoccupazione per le strade di Caracas, si accompagnava al rinviare al dopo alcuni nodi che lo stesso Chávez indicava. Come se la mozione degli affetti potesse cristallizzare a quel 5 marzo, il giorno della morte del presidente, la vita politica di un paese. S’è ripetuto nel campo popolare quello che succedeva nel decennio scorso nell’opposizione: un certo autismo impediva di vedere tanti piccoli smottamenti.
Se la differenza di meno del 2% tra i candidati, soprattutto quando il candidato dell’opposizione presenta un programma analogo a quello della maggioranza, è tale da essere invidiabile nella maggior parte del mondo, non ci si può nascondere che Capriles è stato capace, anche in un momento così emotivamente forte, con un piccolo calo di affluenza, circa il 2%, un voto su dodici al chavismo. Vedremo nelle prossime ore se ci sarà il riconoscimento della sconfitta da parte di Capriles o se seguirà le sirene della parte dell’opposizione che resta eversiva, ma Maduro dovrà interpretare la riduzione della base elettorale socialista come un richiamo ad andare con Chávez oltre Chávez verso sfide sempre più difficili in una rettificazione continua del processo, lavorando sull’efficienza e sull’etica del processo.
Non basterà più dire –ed è senz’altro vero- che quello che ha fatto il chavismo in dodici anni è un risultato straordinario. Chávez ha lasciato una base straordinaria per costruire un Venezuela più giusto, indipendente, sviluppato. Ma adesso non basterà più far notare che corruzione e inefficienza vi erano anche prima del chavismo e non basteranno le più importanti analisi sociologiche sulla persistenza di una violenza angosciosa nel paese. Dovranno essere dati segnali chiari in politica interna, applicando il Piano della Patria di Hugo Chávez per dare risposte a quella parte della società liberata in questi anni dal bisogno primario per permetterle di andare oltre in sicurezza e tranquillità e risolvendo la contraddizione tra ideali socialisti e il quotidiano vissuto in una società dei consumi tradizionale. Resta un’impresa titanica quella di una rivoluzione nella rivoluzione in un contesto nel quale tutto questo dovrà essere ottenuto evitando spaccature del movimento in una situazione che abbiamo spesso descritto come porosa, con continue entrate e uscite tra i due poli. Restano un’impresa titanica ma segnali chiari andranno lanciati da domani, per un governo che ha su di sé la spada di Damocle di un referendum revocatorio strumento di democrazia voluto da Chávez, già tra tre anni.
Al di là del dato elettorale il fatto politico sostanziale emerso negli ultimi anni in tutti i processi elettorali latinoamericani ma con più forza qui in Venezuela, quasi una svolta culturale, è allora il riconoscimento del cambio di egemonia e della non più questionabile rilevanza della figura di Chávez, giunta finalmente anche dall’opposizione. Troppo grande era l’impatto emotivo, la presa di coscienza dell’assenza, perché le elezioni potessero allontanarsi dal riconoscimento postumo dell’importanza di Hugo Chávez nella storia del paese e in quella di tutta l’America latina, per la quale gli ultimi tre lustri hanno rappresentato una sorta di nuovo inizio dopo la catastrofica seconda metà del XX secolo, perduta tra dittature militari e neoliberismo reale per ritrovarsi al punto di partenza del cambiamento necessario.
È importante analizzare alcune caratteristiche di questo voto avvenuto a meno di sei settimane dalla morte del presidente. Maduro non s’è mai discostato dal ruolo di erede designato, compiendolo dignitosamente, stabilendo un contatto empatico col proletariato chavista. Era troppo grande il capitale politico chavista, per rischiare personalismi. È ben difficile da comprendere in Europa la forma del discorso politico venezuelano, militante e allo stesso tempo giocoso, immaginifico e con tratti didascalici da mobilitazione cognitiva per una politica che, liberatasi dall’ingessatura ideologica del pensiero unico neoliberale, ha ricominciato ad essere battaglia di idee.
Enrique Capriles ha proseguito quel processo di civilizzazione dell’opposizione iniziato già nel 2006 da Manuel Rosales, dopo che lui stesso aveva partecipato ai processi eversivi dei primi anni della Rivoluzione bolivariana. Nato come uomo di destra radicale, Capriles oramai si professa progressista e seguace di Lula da Silva. Mal gliene incolse in ottobre, perché proprio l’ex presidente brasiliano lo bacchettò duramente per ribadire il suo appoggio all’amico Chávez. Le televisioni commerciali, in particolare Globovision, continuano a trasmettere 24 ore su 24 un messaggio violentissimo e per molti versi eversivo contro il governo popolare (al quale fa da contraltare appena più civilizzato la bolivariana VTV), ma questo non è già più contro Chávez. Fino a ieri questo era insultato e accusato di qualunque crimine al mondo, riportato senza verifica alcuna dai disinformatori di professione dei media mainstream. Non potevano permettere –dicevano- che uno “zambo” (il termine razzista coloniale per indicare il meticciato più impuro, quello tra neri e indigeni) governasse il paese. Adesso Chávez è nell’empireo, un padre della patria di un nuovo Venezuela inclusivo, del quale anche Enrique Capriles si dice pronto a ripercorrere il cammino addirittura offrendo la cittadinanza a quei medici cubani che hanno costruito da zero il sistema sanitario pubblico e rappresentati come paramilitari infiltrati e pronti al golpe. Un golpe che in Venezuela non c’è mai stato, se non da parte dell’opposizione l’11 aprile 2002 con la partecipazione di Henrique Capriles stesso. Dove ha esercitato il proprio classismo il neo-progressista Capriles è stato allora contro il rivale Maduro, chiamato costantemente, con tono offensivo, per nome o riferendovisi come “l’autista”, ricordando la professione di questi, che più volte ha risposto con ironia arrivando a manifestazioni elettorali alla guida di autobus.
Al di là di queste schermaglie, gli elettori venezuelani, chiamati al voto per la diciottesima volta da quando è iniziata la V Repubblica, non hanno dato soddisfazione alla stampa occidentale, che prevede da sempre un caos che mai si verifica. Polarizzato è il Venezuela, con due visioni antagoniste di paese, ma che si affrontano in pace e in democrazia. Lo stesso Hugo Chávez, il gorilla, il dittatore, ha sempre creduto nelle elezioni e nei processi democratici e ha trasmesso fino all’ultimo un messaggio di continuità democratica nell’indicare il cammino elettorale per la scelta del suo successore. Le elezioni, come sempre, sono state tranquillissime e controllatissime. L’opposizione ha fatto la campagna riempendo le piazze come sempre in totale libertà d’espressione per denunciare… la mancanza di libertà d’espressione. I venezuelani hanno votato con quella partecipazione democratica, quel credere che attraverso il voto le cose possano cambiare in meglio, come tristemente è sempre più difficile poter fare in Italia. Hanno votato con serietà, comunque abbiano votato e quello di aver risvegliato la partecipazione democratica è un altro dei grandi portati del chavismo.
Il paese che lascia Hugo Chávez al suo successore è un paese cambiato in meglio per sempre. Ho visitato nei giorni scorsi uno dei quartieri popolari passati nel corso di un decennio dall’essere una baraccopoli all’avere dignitose case popolari. Héctor, 30 anni, aveva fatto poco più delle scuole elementari e viveva in una baracca di lamiera in uno dei quartieri a più alta densità criminale di questa città sempre difficile. “Oggi –mi dice con orgoglio- ho un diploma di tecnico informatico preso a Cuba. La mia casa è in muratura e ho tutti i servizi. E posso dire di non aver avuto bisogno del governo ma di averla tirata su con il mio lavoro”. Sergio, che di anni ne ha una dozzina, si offre di farmi controllare la posta elettronica sul suo Canaima, il portatile a basso costo, prodotto in Venezuela e che monta una distribuzione locale di Linux, che il governo ha distribuito gratuitamente a oltre 2,5 milioni di studenti. Loro, mi spiega la mamma, una famiglia di cinque donne di tre generazioni più il ragazzo, hanno potuto beneficiare di aiuti per la casa. Nella modestia sembra non mancare nulla, compreso un enorme televisore che trasmette cartoni animati da un canale dell’opposizione. Yazmín, 53 anni, con una storia drammatica alle spalle, con parole veementi mi esplicita il senso del suo appoggio al governo di Hugo Chávez: “dalla Costituzione in avanti abbiamo trovato la dignità. In questo paese prima non eravamo considerati esseri umani e oggi siamo cittadini”. Evito di spiegarle che per l’europeo progressista medio quello che lei considera dignità è solo populismo e demagogia e quei programmi sociali solo clientelismo. Il suo compagno mi mostra cosa vuol dire non essere considerati umani. Si solleva la gamba sinistra del pantalone fino al ginocchio e mi mostra una cicatrice orribile, di fatto non ha il polpaccio: “È un ricordo del 28 febbraio del 1989, durante il Caracazo. Praticamente mi fucilarono. Sono vivo per miracolo”. Quel giorno il governo di Carlos Andrés Pérez, vicepresidente in carica dell’internazionale socialista, fece assassinarne a migliaia tra quelli che protestavano contro l’FMI. Ministro di quel governo stragista era quel Moises Naím che imperversa sui nostri media. Quel giorno cominciò a nascere il progetto inclusivo di Hugo Chávez.
Certamente Nicolás Maduro non avrà un cammino facile davanti e chi aveva sperato che il consenso e l’emozione per la morte di Chávez potessero essere automaticamente traghettato sul nuovo presidente dovrà rifare i calcoli. Il Plan Patria lasciato da Chávez è un programma lineare di integrazione, di riduzione delle disuguaglianze, di raggiungimento di una vera indipendenza e integrazione del continente che richiederà ancora decenni di operosità. Le missioni costano e la sfida sarà non ridurne la portata in un paese ancora da costruire. Non basterà più il solo petrolio a finanziarle e neanche l’immagine salvifica di Hugo Chávez. Ci vorrà più Rivoluzione ma anche la coscienza che, qualunque cosa succeda, il passato più nero non tornerà.