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Lo stallo della politica e la nostra irrilevanza
Il governo Monti, uscito pesantemente sconfitto dalle urne, è di fatto ancora in carica e l’intervento di Giorgio Napolitano – al limite del proprio ruolo costituzionale – è stato per la seconda volta determinante nel condizionare il corso degli eventi: anziché mandare Bersani davanti alle Camere per verificare l’esistenza o meno di una maggioranza a sostegno di un suo eventuale governo, il Presidente della Repubblica ha congelato lo stato attuale delle cose aprendo di fatto la strada all’ipotesi di un governissimo.
Immobilismo solo apparente dunque, stando a quanto si agita in questi giorni nei campi delle forze politiche principali alle prese con balletti politicisti incomprensibili perfino all’elettorato più avvertito: Berlusconi ha riacquistato un ruolo centrale destinato a pesare anche negli sviluppi futuri, il M5S, alle sue prime prove, fa i conti con il manifestarsi di una dialettica interna dagli esiti imprevedibili tra base, gruppo parlamentare e diarchia Grillo-Casaleggio, proprietari del marchio del movimento. Quanto al Pd, all’opera per vagliare possibili alleanze con il Pdl, è riaperta la partita per la successione a Bersani, e con l’ingresso in scena di Fabrizio Barca e il protagonismo di Matteo Renzi sono già visibili i poli dello scontro interno che si sta prefigurando.
Sel, che sembra muoversi verso un’ipotesi di confluenza con il Pd, rischiando seriamente di acquisire un ruolo marginale nel campo del centro sinistra sia in merito al programma che riguardo la scelta dei nuovi gruppi dirigenti, fa i conti con le sue pesanti contraddizioni interne.
Ma veniamo a noi. La crisi di Rifondazione (insieme a quella delle altre forze politiche che con noi sono state protagoniste della grave sconfitta elettorale di Rivoluzione Civile) è un processo profondo, di natura non ordinaria. Il rischio maggiore in questa fase sarebbe quello di cadere in uno stato di paralisi a seguito del trauma elettorale, il che non soltanto ci impedirebbe di fare i conti con la nostra crisi e di reagire ai sommovimenti del quadro politico generale, ma ci lascerebbe anche – e con effetti disastrosi – del tutto impreparati di fronte all’eventuale precipitare della crisi politica e a un niente affatto improbabile ritorno anticipato alle urne.
La perdita di consensi che colpisce Rifondazione è indice di uno scollamento profondo dalla società. Di fronte a una crisi del genere occorrono scelte drastiche. Per prima cosa, bisogna – coerentemente con quanto dichiarato prima dell’appuntamento elettorale e nei giorni successivi al voto – che il gruppo dirigente rassegni le dimissioni. Certamente non sarebbe un atto risolutivo rispetto alla grandezza dei problemi che abbiamo di fronte, ma sarebbe un gesto simbolico di enorme significato per aprire ed aprirci una strada oltre l’angusto presente. Un segno incontrovertibile di consapevolezza. Una dichiarazione limpida e audace di esistenza in vita. Una autorizzazione a procedere.
A seguire vi è la necessità di una discussione approfondita – che non può che essere di natura congressuale – per riflettere a fondo sui nostri limiti e sui nostri errori, e per tentare di comprendere come mai tutte le proposte politiche messe in campo per rompere l’isolamento di Rifondazione comunista negli ultimi anni siano fallite, dalla Federazione della Sinistra fino alla recente esperienza di Rivoluzione Civile. Gli sforzi generosi dei militanti e delle militanti sono stati, purtroppo, vanificati. Nonostante le energie profuse, le parole d’ordine oggetto di discussione e di analisi non sono mai diventate una realtà politica. La stessa Fds è fallita senza che nemmeno si convocasse una riunione per decretarne formalmente la fine, con ciò suggerendo alle compagne e ai compagni un frustrante sentimento di improvvisazione delle nostre scelte.
Il mancato rilancio del partito
Come Rifondazione Comunista non siamo riusciti a entrare in sintonia con i nostri riferimenti sociali anche a causa dei registri espressivi utilizzati, del linguaggio, di una certa arroganza residuale, di parole d’ordine cambiate in continuazione. Questa incapacità si è via via acuita, sino a esplodere in concomitanza con la travolgente affermazione del M5S, il cui successo deve far riflettere.
Quale che sia il nostro giudizio politico su Grillo e Casaleggio, sulla natura proprietaria del rapporto tra questi e la base del movimento, sul loro attacco indiscriminato e distruttivo ai partiti, alla politica e alle istituzioni repubblicane, non c’è alcun dubbio che gli elettori del M5S abbiano una rappresentazione di sé come portatori di un fenomeno di protesta, di rottura, di cambiamento e di contestazione radicale. Un conto è l’analisi della collocazione politica del movimento, la demistificazione della propaganda di Grillo, la critica al modo in cui si utilizza il voto di un quarto degli italiani, altra cosa sarebbe mostrarsi indifferenti ai motivi che hanno spinto milioni di elettori a votarlo. Il risultato ottenuto da Grillo è il segno che esiste nella società un fronte di protesta ampio e politicamente strutturato, dotato di un proprio linguaggio e di un proprio immaginario. Di queste pulsioni abbiamo solo una vaga rappresentazione. Il più delle volte preferiamo sorvolare frettolosamente e liquidare gli umori presenti nei piccoli ceti medi e in quelli popolari come manifestazioni di populismo e di qualunquismo.
È soprattutto a causa di questo sguardo riduttivo che la sinistra radicale, a cominciare dal nostro partito, non è stata capace – laddove altri sono riusciti – a fornire una chiave politica ai sentimenti di insoddisfazione, disagio e protesta che da tempo covavano negli strati profondi della società italiana. Questi sono i problemi che dobbiamo affrontare se vogliamo provare ad essere di nuovo una forza non marginale nella società. Solo così possiamo anche dare una opportunità alle compagne e i compagni che – tra mille difficoltà – sui territori hanno resistito e che aspettano da noi una proposta che ridia loro voce e credibilità per poter tornare in mezzo alla gente.
Il contesto in cui oggi si trova ad operare Rifondazione comunista è assai diverso da quello che si era prodotto all’indomani dello scioglimento del Pci. Le condizioni della nostra esistenza politica nella società italiana sono profondamente mutate. Allora poteva apparire sufficiente rivendicare l’appartenenza alla storia comunista ed esibire i simboli della falce e martello per suscitare adesioni ed entusiasmi. Oggi non è più così.
L'”attualità” del comunismo e di un progetto di alternativa non può risolversi in una proclamazione. Deve trasformarsi in un progetto concreto, credibile, utile anche dal punto di vista di strati non minoritari della società.
Come fare? O Rifondazione Comunista e le comuniste e i comunisti di questo paese trovano finalmente le condizioni politiche per agire in una dimensione più ampia dello spazio pubblico, in campo aperto, all’interno di un campo di forze che non produca al suo interno steccati e recinti identitari, nel quale le nostre idee possano circolare e rigenerarsi, oppure finiremo per segregarci nel perimetro di forze esigue, minoritarie, con scarsissime possibilità di incidere nella politica nazionale. Un campo aperto al punto di includere contenuti e programmi comuni alle lotte sociali di questi anni (lavoro, beni comuni, ambiente qualità della vita, Stato sociale, istruzione, cultura, autodeterminazione, diritti civili, pace) e altresì di rendere riconoscibile una visione della società alternativa a quella dominante.
Non è un’impresa facile, perché non si tratta solo di formare un nuovo gruppo dirigente, più fresco e reattivo rispetto al presente, capace di agire al di fuori delle rivalità del passato e degli immutabili riferimenti biografici dei predecessori, ma anche di costruire nuove forme della politica, dando una risposta alla crisi di organizzazione, di rappresentatività e di insediamento dei partiti.
Un nuovo soggetto della sinistra
Lo scatto deve avvenire – in prima battuta – nella costruzione di un nuovo soggetto politico a sinistra di quello che è oggi il Pd. Solo in una aggregazione di questo tipo Rifondazione Comunista e le comuniste e i comunisti potranno continuare a giocare un ruolo sulla scena nazionale italiana. Di questo nuovo campo organizzato dovrebbero fare parte tutti i protagonisti sociali, sindacali e politici che si sono dimostrati in questi anni critici nei confronti di come sono state perseguite dalle istituzioni europee e dai governi le politiche del pareggio di bilancio, dell’austerità e della riduzione del debito. Al di fuori di questa eventualità è difficile sottrarsi all’isolamento e all’inefficacia, come ha dimostrato anche che la storia recente di Rifondazione comunista.
Se non ci si mette seriamente al lavoro per costruire una sinistra di alternativa sul modello di quelle esistenti in tutti i Paesi europei, attestata su livelli analoghi di forza e di consenso, non può esserci alcun contesto dentro il quale far crescere, in prospettiva, anche una forza comunista. Le energie che potrebbero dare vita a questa aggregazione hanno già dimostrato di condividere molti contenuti tra loro ma ciononostante si incontrano solo episodicamente. È accaduto che si ritrovassero l’una accanto all’altra – ad esempio, nella raccolta delle firme per i referendum sul lavoro o nelle manifestazioni della Fiom – eppure una volta fuori da una specifica situazione sono sempre ritornate ciascuna nel proprio recinto. L’incapacità di costruire un soggetto comune ha finito per indebolire ciascuna di queste forze, condannandole a un ruolo residuale o subalterno al Partito democratico. La frammentazione ha privato il campo della sinistra alternativa di quella efficacia che soltanto una ricomposizione oggi potrebbe restituirle. Inutile nascondere che il passaggio è stretto e complicato.
Quel che bisogna evitare è che le preclusioni e i veti contrapposti oggi esistenti impediscano sul nascere qualunque tentativo di far nascere qualcosa. Sarebbe deleterio che uno qualunque dei tanti soggetti in campo volesse dettare le regole e imporre un tipo di organizzazione anziché un’altra in funzione dei propri interessi. Allo stesso tempo sarebbe esiziale per il progetto che una qualunque forza politica ponesse in questo percorso condizioni tali da escludere in partenza la possibilità del coinvolgimento di altri. Un nuovo soggetto potrà risultare credibile soltanto se nascerà dai contenuti che si condividono e non dalla somma di minuscoli gruppi dirigenti bloccati dalle rispettive rivalità. Per favorire questo processo Rifondazione Comunista si mette a disposizione – senza primogeniture e senza presunzione alcuna – per realizzarlo assieme a coloro i quali sono interessati ad una nuova aggregazione politica della sinistra italiana. Le modalità dello stare assieme e il programma politico non saranno definiti a priori, ma da tutte le forze che vi parteciperanno, soggetti singoli e collettivi, attraverso un confronto democratico e partecipato secondo la regola di “una testa un voto”.
Unità e autonomia
Qualunque altra ipotesi che si volesse contrapporre alla costituente di una nuova sinistra unitaria rifluirebbe in soluzioni sbagliate. In campo ce ne sono due – diametralmente opposte tra loro – ma entrambe inefficaci. La prima è la tentazione della fuga identitaria, della reazione minoritaria e settaria, del rinculo ideologico e dottrinale, complici l’inerzia o una paradossale coazione a difendere piccole e fragili identità. La seconda è la proposta di confluire nel Pd, perché – visti i rapporti di forza e il ruolo ancora maggiore che verosimilmente rivestirà Renzi nei prossimi mesi – ciò sancirebbe l’omologazione e la subalternità della sinistra. Persino al fine di condizionare il Pd stesso, più che un’operazione di “entrismo” avrebbe chances una forza della sinistra autonoma dal Pd, destinata per ciò stesso a esercitare una azione di pungolo.
Naturalmente, la costruzione di un nuovo soggetto alla sinistra del Pd non può esaurirsi al terreno delle alleanze politiche e delle forme organizzative, che, tra l’altro, non possono essere definite prima che si avvii un cantiere di discussione. La ricerca va estesa al piano dei contenuti e dei programmi. Non ci si può limitare a enunciare i valori fondamentali: lavoro, beni comuni articolati in obiettivi specifici, che corrispondano agli interessi immediati e ai bisogni reali del proprio blocco sociale. Per fare un solo esempio tra i tanti, è necessario dichiararsi difensori del lavoro e battersi in favore dell’articolo 18. Ma non è sufficiente. Occorre che prese di posizione teoriche di per sé giuste corrano di pari passo con rivendicazioni concrete, efficaci, inclusive, capaci di mobilitare vasti settori del mondo del lavoro e non soltanto singoli segmenti delle filiere produttive. Le metamorfosi avvenute nell’ambito dei nuovi processi produttivi/riproduttivi hanno modificato la società nel profondo, gli immaginari, i desideri di più di una generazione. Le categorie di riferimento, valide nel 900, richiedono oggi un aggiornamento. Siamo obbligati ad undi più di analisi in grado di consentirci – alla luce dei nuovi scenari – di cogliere la molteplicità delle contraddizioni esistenti: di classe, di genere, di razza, che spesso convivono simultaneaneamente ed in modo esplosivo nei soggetti del conflitto di questa nostra contemporaneità, come metafore delle contraddizioni che produce il capitalismo attuale.
Il nostro partito deve recuperare al più presto, in questo terreno come in ogni altro ambito del conflitto, la capacità di stare dentro la battaglia politica. Di interagire con i nuovi soggetti del conflitto, donne uomini, migranti, giovani, e con tutte le forze democratiche interessate al cambiamento e alla difesa delle classi subalterne. Di costruire il più vasto movimento di popolo per la rinascita di questo paese nel segno dei principi inscritti nella Costituzione nata dalla Resistenza antifascista.
Claudio Grassi, Irene Bregola, Mimmo Caporusso