- di Alberto Burgio *
Capire che cosa è accaduto nel nostro campo per dare radici alla ricostruzione dopo lo tsunami Diritti,rappresentanza formazione, welfare: punti per un bilancio sugli errori dell’ultimo ventennio del paese
Alla fine le Camere hanno eletto i propri presidenti, ma sullo sfondo campeggiano altri enigmi. Chi siederà a palazzo Chigi? Chi, soprattutto, al Quirinale, di qui al 2020? Si brancola nel buio. E proprio per ciò che attiene alla presidenza della Repubblica il «passo indietro» di Monti in Senato lascia intravedere scenari inquietanti. Nel frattempo si affoga.
Disoccupazione, povertà, sfiducia. Una moria inarrestabile di imprese industriali, artigiane e commerciali. Il debito pubblico alle stelle. Prima o poi il paese uscirà da quest’incubo, ma intanto siamo in un dannato pasticcio del quale non si vede la fine. In tutto questo è inevitabile chiedersi come saremo messi quando – presto o tardi – questa legislatura finirà. Il voto di febbraio è stato, si dice, un terremoto: speriamo non si intenda, con ciò, che possiamo star tranquilli. Non è detto che il peggio sia alle nostre spalle. È probabile, invece, che siamo appena all’inizio di una fase di grandi sconvolgimenti e che il paese rischia di brutto se non si avrà il coraggio e la lucidità di introdurre profondi cambiamenti. Cominciando proprio dal sistema politico e dalla sua drammatica crisi di rappresentatività, che è poi la vera causa dello tsunami grillino.
Forse bisognerebbe, innanzi tutto, cercare di capire perché ci ritroviamo in queste condizioni, e per questo occorrerebbe ripercorrere un po’ di storia. Qui cominciano le difficoltà, posto che ogni periodizzazione contiene un pezzo della tesi che si intende dimostrare. Ma in questo caso qualche criterio obiettivo c’è.
Tutti concordano sul fatto che gli ultimi vent’anni hanno costituito una fase a sé stante. All’inizio degli anni Novanta il sistema politico italiano fu sconvolto da Tangentopoli, dalla Bolognina e da un’ondata di riforme istituzionali che lo trasformarono. Cominciò l’era del maggioritario e dell’iper-leaderismo mentre scomparivano tutte le forze politiche, Dc e Pci in testa, che avevano scritto la Costituzione e, sin lì, la storia repubblicana. Non per caso si parlò di una «seconda Repubblica». Tutti convengono anche sul fatto che qualcosa di molto rilevante è accaduto col voto di febbraio. Non solo il bipolarismo è andato in pezzi. Non solo i maggiori partiti sono in crisi. Comunque la si pensi sul M5S, non c’è dubbio che la sua irruzione ha messo a soqquadro il sistema, rendendo inderogabili innovazioni radicali.
Se questo è vero, ecco una prima, parziale risposta. Siccome bisogna cercare di capire perché siamo ridotti così, per questo motivo è necessario fare finalmente un bilancio dell’ultimo ventennio. Da troppo tempo chi fa politica sembra pensare che riflettere sia una perdita di tempo, roba da intellettuali perdigiorno. È vero il contrario. O si è in grado di collocare la propria azione in un quadro di senso, il che implica una visione pertinente della storia nella quale si è coinvolti. Oppure ci si riduce fatalmente a esecutori passivi e inconsapevoli.
Ma – ecco il punto – un bilancio da quale punto di vista? A questo riguardo è infatti inevitabile rinunciare a prospettive condivise. Raramente in politica si vince o si perde tutti insieme: bisogna decidere da che parte stare. Scelte che per qualcuno sono errori, rappresentano per l’avversario mosse azzeccate. Ciò che per gli uni segna un progresso, per gli altri equivale a un arretramento. Qui le platee necessariamente si separano. Credo che noi, a sinistra, un bilancio non potremmo farlo se non dal punto di vista del lavoro dipendente pubblico e privato, stabile e precario, comprendendo in esso i pensionati e quanti – milioni di giovani e donne, a partire dal Mezzogiorno – stentano a trovare un’occupazione. Perché? Per la ragione, semplice e fortissima, che nulla di buono può accadere per la e alla sinistra italiana – comunque la si intenda – che contrasti allo spirito del primo articolo della Costituzione repubblicana.
Da qui deve ripartire la ricerca – quanto possibile spregiudicata e unitaria – se la sinistra (quel che ne resta) vuole evitare una disfatta di proporzioni davvero colossali, rispetto alla quale il voto di febbraio sarebbe poca cosa. D’altra parte, fare questo bilancio non sembra un compito improbo. Neanche in questo caso è difficile fissare pochi, dirimenti criteri-base. Ci si confronti sui diritti inalienabili del lavoro e sul grado minimo della sua sicurezza (precarietà, povertà, infortuni). Ci si pronunci sul tema della formazione, se la si ritenga un diritto per tutti sino all’università, contro la tendenza in atto a reintrodurre la selezione censitaria. Si prenda posizione sulle riforme istituzionali, in particolare sulla tensione tra governabilità (obiettivo mancato delle riforme degli anni Novanta) e rappresentatività. Si ponga infine sul tappeto la questione della politica economica: del welfare (contro la privatizzazione dei servizi), della politica industriale e del ruolo del pubblico nel credito, dell’autonomia del paese dagli interessi dei grandi capitali transnazionali, del ruolo del mercato in una democrazia. Uscendo da un’ambiguità che ha impedito in tutti questi anni qualsiasi serio confronto e alimentato diffidenza e pulsioni distruttive: ci si pronunci francamente sul piano dei giudizi di valore (si dica come si valutano i singoli processi in atto, se rappresentano progressi o involuzioni) prima di sancirne la presunta incoercibilità.
Insomma, si apra, per dir così, una grande costituente del lavoro. Non dovrebbe essere così difficile, mentre sarebbe con ogni probabilità l’unico modo per mettere a valore la sconfitta subita alle elezioni, trasformandola in un’opportunità. Forse, da una parte, si scoprirebbe che il disastro della sinistra italiana è cominciato proprio quando sul lavoro si è smesso di pensarla allo stesso modo (per approdare alle teorie dell’equivicinanza). E, dall’altra, ci si renderebbe conto che si è meno divisi di quanto si creda, tra forze politiche (partiti che oggi sono dentro e fuori il parlamento) e tra forze sociali (sindacati, movimenti, associazioni, sinistra diffusa e intellettualità). Si apra una discussione affinché anche in Italia nasca una sinistra del lavoro, che erediti in primo luogo l’esperienza del Pci, forse prematuramente archiviata insieme alla «prima» repubblica. E si cerchi – le pagine del manifesto potrebbero offrire un territorio ideale – un nuovo linguaggio unitario che permetta di ricominciare insieme un cammino da troppo tempo interrotto.
IL MANIFESTO – 19 marzo