(Livorno, 21 gennaio 2012 – Sintesi degli interventi durante le iniziative del 91° anniversario della nascita del PCd’I)
Lavoro e capitale.
Avrei voluto celebrare questa data, così significativa per noi comunisti, con animo ben diverso. Noi sappiamo dare ai simboli il valore che meritano e, insieme, non ci piace togliere lo sguardo dalla realtà concreta. Per questo, i compagni di Livorno hanno voluto evitare di dare a questa ricorrenza un significato meramente celebrativo e hanno deciso di dedicare il nostro incontro alla realtà del lavoro.
Una realtà pesante, per questo territorio e in generale per il Paese, come si evince anche dall’intervento introduttivo che mi ha preceduto: decine e decine di fabbriche in crisi, migliaia di lavoratrici e lavoratori con la prospettiva immediata di perdere il loro posto di lavoro. Una miriade di aziende piccole e medie; e grandi insediamenti produttivi. Come Fincantieri, i cui lavoratori ad Ancona riescono con la lotta ad impedire la chiusura di una sede che è parte della storia di quella città; ma che in un’altra sede non troppo lontana da qui, a Sestri Ponente, intende mandare in cassa integrazione 740 addetti (2 mila e 500, considerando l’indotto), senza che sia indicata una vera prospettiva di sviluppo del settore. Qui a Livorno c’è gente di mare, siete cittadini di una città che gestisce uno dei grandi porti del Mediterraneo; e ne sapete più di me. Mi chiedo: ha Fincantieri un amministratore delegato? Lo ha avuto in questi ultimi anni? E dov’era il governo? Possibile che solo oggi si scopra che la nostra cantieristica deve far fronte ad un calo degli ordinativi? Leggo che la Francia ha sì ridotto il volume produttivo e ristrutturato il settore, ma che in tale contesto ha nel contempo varato un piano industriale e programmato ingenti investimenti. Anche aprendo la strada a processi di riconversione industriale; ma, innanzitutto, curando le potenzialità del settore. Da noi, ci fanno sapere che sono più che dimezzate le commesse per le navi da crociera. Questo però non significa che nel prossimo futuro non ci saranno più navi a solcare il mare: traghetti, navi per il trasporto merci, petroliere (casomai costruite alla luce di criteri innovativi e rese, grazie a ciò, “ecologiche”). Sono anni che si sente parlare di “trasporto intermodale”, di “autostrade del mare”: ma occorrerebbero piani generali, progettualità lungimiranti. Parliamo di settori di punta, di un lavoro che vanta altissime professionalità. Cos’hanno fatto i governi? E cos’ha fatto l’Europa?
In questi giorni, i quotidiani hanno pubblicato la mappa dei settori in crisi. E’ un quadro del nostro Paese assai desolante: si va dall’automobile (con la Fiat che nel 2010 ha prodotto un quarto delle vetture prodotte 20 anni fa, a fronte di un mercato sempre più saturo) alla chimica e alla siderurgia, fino agli elettrodomestici (con la crisi di nomi che – si pensi a Candy – hanno a suo tempo popolato l’immaginario dell’italico boom economico). Beninteso, tutto ciò non avviene per un accidente della natura, ha a che vedere con la crisi strutturale del modo di produzione capitalistico (come è stato sottolineato nel documento congressuale del Prc), con il “ciclo lungo” (più che trentennale) di questa crisi, che ha determinato un calo di redditività dell’economia reale: o, per dirla con Marx, una caduta dei tassi di profitto. E ciò ha altresì a che vedere con la risposta “globalizzata” con cui le élites del sistema economico hanno reagito: finanziarizzazione, libera circolazione dei capitali, attacco al salario (vedi metodo Marchionne). Per molti territori del nostro Paese l’esito di tali processi è devastante. A Porto Vesme, in Sardegna, gli americani se ne vanno, l’Alcoa cessa di produrre alluminio e un intero territorio precipita nella povertà: l’Italia dovrà cercarsi alluminio all’estero, mentre il Sulcis Iglesiente (130 mila abitanti, dove dal 2007 ad oggi hanno già chiuso 3.700 partite Iva) vede scomparire una prospettiva di ripresa. Da tempo, la multinazionale in questione lamentava un eccessivo costo dell’energia, al di sopra della media europea. Lo stato ha garantito per anni finanziamenti e tariffe agevolate: loro fino a ieri hanno preso i soldi e oggi se ne vanno lo stesso.
Con le delocalizzazioni, l’Italia ha visto espatriare un milione e 600 mila posti di lavoro! E neanche tutti di aziende in crisi conclamata. A volte si tratta di semplice rincorsa al massimo profitto, come nel caso della Omsa: un’azienda in salute che vuole andare in Serbia a spuntare costi del lavoro più bassi, mettendo qui per strada 240 operaie. “Libero mercato”, dicono. Sfruttatori della forza-lavoro, diciamo noi. E proponiamo che, come minimo, chi delocalizza restituisca tutti i finanziamenti ricevuti. “Attentato alla libera circolazione dei capitali”, “anacronistico protezionismo”, ribattono. Rispondiamo che è il minimo indispensabile per tutelare i diritti e la dignità del lavoro.
Nell’imperante irrazionalità del mercato capitalistico e nel generale “si salvi chi può”, gli stessi Enti Locali – strangolati dal Patto di stabilità e dal taglio dei trasferimenti statali – riducono drasticamente le già ridotte spese: così accade ad esempio che, mentre l’Irisbus chiude stabilimenti e riduce la produzione di autobus, a Roma girino autobus prodotti in Turchia (e che costano meno). E via di questo passo, continuando a perdere pezzi di industria: senza un piano, senza una politica industriale degna di questo nome. Torno a chiedere: il governo che fa? E dov’è l’Europa, o almeno quell’Europa che avrebbe dovuto essere un polo di sviluppo democratico e progressivo? Davanti alle proiezioni statistiche che danno per i prossimi due anni l’economia continentale in recessione e il quadro sociale in ulteriore involuzione, il persistere nelle stesse politiche marcatamente classiste, quelle che hanno condotto all’attuale disastro, appare davvero irresponsabile (oltre che iniquo).
Un governo “di classe”.
Prendiamo atto del fatto che l’esecutivo in carica ha attivato presso il Ministero dello Sviluppo Economico tavoli di trattativa per ricercare soluzioni alla situazione critica di oltre 200 aziende, piccole e grandi, e per tentare di rispondere ad un’emergenza occupazionale che riguarda direttamente 50 mila lavoratori (300 mila, se si considera l’indotto che viene ad essere coinvolto). Un atto dovuto, un minimo d’attenzione rispetto al totale disinteresse dimostrato dal precedente governo; e, certamente, ci auguriamo che delle soluzioni immediate siano trovate. Ma non è solo di questo che ha bisogno la realtà del lavoro nel nostro Paese. Non basta la croce rossa; occorrerebbero vere e proprie strategie di rilancio dell’apparato produttivo, risorse da investire, se davvero si volesse non semplicemente parlare a vanvera di “crescita” ma dare concretezza a un progetto di sviluppo socialmente e ambientalmente progressivo per il Paese. Come si vede, non stiamo parlando della presa del Palazzo d’Inverno: molto più prosaicamente si tratta di politiche “riformiste”, che comunque dovrebbero comportare una radicale inversione degli orientamenti di politica economica. Cosa che non pare affatto nelle corde di questo governo.
Recentemente, ho avuto modo di ascoltare direttamente il Presidente del Consiglio in un paio di occasioni che ho considerato molto significative. La prima in tv, da Fabio Fazio: ho ricevuto l’impressione di un uomo che non parla per sentito dire e sa comunicare. Chi avesse ritenuto il professor Monti un tecnico di parte, che conosce la materia ma è politicamente sprovveduto, sarà bene che si ricreda. Abbiamo davanti un politico con un progetto preciso e che intende realizzare fino in fondo i suoi propositi, autorevolmente protetto dal Capo dello Stato e di fatto sostenuto dall’accordo bipartisan di quasi tutto il Parlamento (entro cui peraltro si aggirano forze politiche che appaiono per un verso conniventi e, per altro verso, impotenti e ammutolite): un uomo che è perfettamente in grado di utilizzare il credito che gli viene dal suo curriculum europeo e che, a quel livello, gli consente di confrontarsi con i suoi partners da pari a pari. Insomma, per noi non sarà affatto un’opposizione facile e scontata. La seconda occasione si è presentata ascoltando su Radio Radicale il resoconto presentato alla Camera dei Deputati del viaggio in Europa e dei colloqui avuti in particolare con Sarkozy e la signora Merkel. Qui Monti ha avuto modo di esplicitare a tutto tondo la sua impostazione generale e il progetto politico che da questa consegue. Ebbene, se ce ne fosse stato il bisogno, ho avuto conferma del fatto che abbiamo a che fare con un’impostazione “organicamente di destra”. Vorrei che, in proposito, si desse il giusto peso alle parole e si evitassero banalizzazioni. Quando dico “di destra” non sto evidentemente pensando a quel che ad esempio sta accadendo in Ungheria, né alle farneticazioni della giovane Le Pen in Francia o ai rigurgiti nazi che tornano a farsi avanti in giro per l’Europa. Penso piuttosto ad un impianto ben strutturato, in linea con gli interessi del grande capitale europeo: un’ispirazione che nasce dal cuore dei “poteri forti”, dalla fucina in cui si approntano gli apparati concettuali e la strumentazione politica della grande borghesia. Un’impostazione che tuttavia, risentendo delle contraddizioni che attualmente attraversano l’establishment del Vecchio continente, cerca di mantenere un ancoraggio “nazionale”.
In effetti, non vi è dubbio che il viaggio in Europa di Mario Monti avesse il mandato di alleggerire gli improbi compiti assegnati al suo governo in sede comunitaria, tutelando gli interessi del suo Paese (e del suo stesso governo) e spingendo altresì l’Unione (la Germania, in particolare) a fare ciò che sinora non ha fatto per confermare un futuro al progetto europeo. Solo un aspirante suicida potrebbe avallare entità e tempistica del rientro dal debito, così come sono prescritte dai patti europei sin qui ufficializzati. Segnatamente, non è pensabile di uscire vivi sulla base del ruolino di marcia prefigurato dal cosiddetto “Six Pack” (la revisione rinforzata del patto di stabilità) e dal documento finale partorito dal Consiglio europeo del 9 dicembre scorso: che, com’è noto, prevedono per il nostro Paese nei prossimi anni una riduzione dell’ordine del 5% annuo dell’extra-debito (che, tradotto in manovre finanziarie, significa la bellezza di 40/45 miliardi di euro l’anno). E’ comprensibile quindi che l’Italia abbia chiesto un addolcimento della pillola, nella fattispecie la considerazione dei “fattori rilevanti” per la valutazione dell’andamento del debito pubblico: e cioè l’inclusione di deroghe nel caso di “circostanze economiche eccezionali” o di periodi “di grave recessione” e, per altro verso, il mantenimento di “un margine per manovre di bilancio che tengano conto in particolare delle necessità di investimento pubblico”.
Sulla base di quanto ufficialmente dichiarato, non pare che l’incontro al vertice abbia prodotto i risultati sperati. Ma il punto che mi preme sottolineare non è questo. Il fatto è che, nella sua relazione davanti al Parlamento nazionale, Monti ha confermato la sua sostanziale adesione agli obiettivi che hanno sin qui caratterizzato le devastanti politiche europee: su tutti, il “pareggio di bilancio” come stella polare della politica economica statuale e il rientro dal debito, con relativo corredo di sanzioni. Quand’anche si ottenesse un’attenuazione dell’infausta terapia, resta tuttavia in piedi una filosofia economica come tale drammaticamente inefficace (oltre che pesantemente iniqua nelle sue concrete applicazioni).
Dogmi.
Che i provvedimenti decisi sin qui dal governo siano profondamente ingiusti e pongano il carico della crisi sulle spalle dei “soliti noti” è un fatto che lorsignori fanno molta fatica a contestare. In questo senso, lo slogan “NOI non vogliamo pagare la VOSTRA crisi” ha avuto una presa immediata. Nonostante ciò, con la maggioranza parlamentare garantita, il professor Monti non ha perso tempo e ha tirato diritto: ennesimo intervento peggiorativo sul sistema pensionistico, aumento delle imposte indirette (che colpiscono indistintamente nel mucchio), reintroduzione del balzello sulla prima casa ecc. ecc., non sto qui a ripetere. Da agosto ad oggi, tre manovre per un totale di 75 miliardi di euro. Ed ora, dopo il cosiddetto “decreto salvaitalia”, la cosiddetta seconda fase (con il decreto “crescitalia”). Ha detto bene Vauro, in una di quelle sue tipiche battute che valgono più di cento articoli: con la fase due vogliono far fuori quelli che erano sopravvissuti alla fase uno!
E’ precisamente in questa seconda fase che vediamo applicati alcuni dei dogmi privi di fondamento scientifico tenacemente professati dall’approccio neoliberista. Come detto, per noi è relativamente agevole acquisire consenso sul terreno dell’iniquità delle manovre: i fatti parlano da soli e svuotano le tasche – già abbondantemente svuotate – di gran parte degli italiani. Ma questo non è sufficiente: c’è un compito di informazione e chiarificazione più difficile, ma ineludibile. Dobbiamo spiegare che queste misure non sono solo profondamente ingiuste, ma anche sbagliate e nient’affatto necessarie. Dobbiamo cioè replicare con decisione all’affermazione: “Sono misure pesanti, ma dobbiamo accettarle per la salvezza del Paese, per evitare guai peggiori”. Questo è per noi il compito più difficile e delicato.
Cominciamo dal primo dogma. Chi ha detto che una maggiore flessibilità del lavoro produce maggiore occupazione? Ce lo hanno ripetuto in tutte le salse; non passa giorno senza che sul Corriere della Sera il professor Alesina e il professor Giavazzi tornino su questa pretesa verità rivelata. Ebbene, non è affatto una verità: è una frottola, un assunto smentito dai fatti e falsificato dalla dottrina. A sinistra, sono ormai in tanti a dirlo. Tra gli altri, uno dei nostri bravi compagni economisti – Emiliano Brancaccio – ha messo insieme i dati rilevati negli ultimi anni dall’Ocse in 28 tra i principali Paesi industrializzati, confrontando in particolare l’indice del grado di protezione del lavoro (detto EPL, acronimo di Employment Protection Legislation) con il tasso d’occupazione e quello di disoccupazione: e ha evidenziato che non sussiste alcuna correlazione statisticamente rilevante tra le serie di variabili così monitorate. Non c’è alcuna correlazione tra il grado di flessibilità del lavoro e l’occupazione e non è vero che, se aumenta l’una, cresce anche l’altra. Chi vuole togliere l’art.18 dello Statuto dei Lavoratori non ha affatto di mira l’aumento degli occupati: ha unicamente di mira l’indebolimento del sindacato e lo smantellamento dei diritti acquisiti dal mondo del lavoro. Ebbene, l’attuale governo, in sintonia con i diktat europei (della destra europea, a partire da Angela Merkel) e in nome della crescita, cosa fa? Interviene sul mercato del lavoro, puntando a una sua ulteriore flessibilizzazione e a sottrarre l’art.18 alla sua aureola di intoccabilità. Si tratta di una scelta sciagurata, a maggior ragione in quanto siamo in tempi di recessione economica. A lanciare l’allarme in tal senso, ci sono anche dei premi Nobel: nelle attuali condizioni, metter mano al mercato del lavoro è un’opzione priva di senso, che può essere soltanto dettata da una dogmatica pervicacia ideologica (Krugman).
Secondo dogma. Chi ha detto che per crescere bisogna liberalizzare e, eventualmente, privatizzare? Anche qui, una falsità resta una falsità: ma ripetetela cento e cento volte e diviene verità. Questo è uno dei nodi sensibili su cui il pensiero dominante ha sfondato anche tra le file di quella che un tempo era la sinistra (comunista e non). Non a caso, la più eclatante stagione privatizzatrice l’abbiamo avuta in Italia (assieme all’Inghilterra della signora Thatcher) con governi di centro-sinistra (in particolare col governo Ciampi). Il risultato è sotto i nostri occhi: un Paese che ha stracciato qualsiasi disegno di politica industriale, mettendo all’asta i gioielli di famiglia e rinunciando così a preservare in mani pubbliche (come, per certi versi, hanno fatto Francia e Germania) i punti di eccellenza del suo sistema produttivo. Ed oggi ci risiamo. Per carità di patria, non intendo soffermarmi su tassisti e farmacisti: sarebbe un’offesa al buon senso ritenere che il problema dello sviluppo nazionale sia deciso dalla liberalizzazione di taxi e farmacie. Il piatto ricco sono i servizi pubblici locali e le grandi reti nazionali. Sui primi, il governo ha dovuto subire una battuta d’arresto, grazie alla zeppa posta dalla volontà degli italiani, espressasi nell’ultima tornata referendaria, nonché grazie alla vigilanza mantenuta dal movimento in difesa dei “beni comuni” e dalla stampa non asservita, nel caso particolare da il manifesto: il quale ha denunciato per tempo l’insidia rappresentata dall’art.20 del secondo decreto Monti, in cui si dichiarava illegittima la gestione di servizi di rilevanza economica da parte di aziende speciali (pubbliche). La norma è così scomparsa dalla stesura definitiva e il pericolo è stato per ora scongiurato: detto per inciso, quest’episodio evidenzia quanto sia grave per la libertà d’informazione e ben poco casuale la volontà di strangolare le piccole testate giornalistiche attraverso il taglio del finanziamento pubblico (cosa che ha già costretto il nostro giornale Liberazione a sospendere le pubblicazioni). Non illudiamoci: alla faccia della democrazia, acqua, trasporti locali, ciclo dei rifiuti continueranno ad essere nel mirino dei liberalizzatori/privatizzatori. Così come le grandi reti nazionali, trasporto ed energia. Non è bastato a questi signori il disastro (in termini di abbassamento dei livelli di sicurezza e, quindi, di incidenti e morti ammazzati) prodotto dai processi di liberalizzazione a suo tempo avviati nelle ferrovie inglesi. Né serve ricordare che ancora in Inghilterra, dove si è andati più avanti con le liberalizzazioni anche nell’ambito dell’approvvigionamento di gas, il tasso di variazione dei relativi costi non è affatto diminuito ed anzi è aumentato. Ancora una volta, gli interessi delle grandi compagnie e il dogmatismo neoliberista non accennano a battere in ritirata (come la stessa esperienza dovrebbe raccomandare).
Keynes sparito.
E siamo al terzo dogma, quello che in un certo senso racchiude tutti gli altri: il pareggio di bilancio, quale principio di base da inserire addirittura nelle costituzioni degli Stati europei, e il rientro secco dal debito. Attenzione, non si pensi che si tratti di questioni immediatamente comprensibili. La storia dei comunisti, la nostra storia è fatta di vertenze e lotte, così come di attento studio dei contenuti. A noi spetta il compito di formare e informare, demistificando le manipolazioni dell’ideologia dominante: a maggior ragione, dopo anni di “pensiero unico”, di desertificazione delle coscienze e delle intelligenze. Per questo dico che il nostro è un compito essenziale ma tutt’altro che agevole, che ci obbliga ad una vera e propria ricostruzione del senso comune. Riflettete per un momento: cosa c’è di più naturale degli sforzi di un buon padre di famiglia per tenere i conti in ordine, per mantenere in pareggio il bilancio familiare? E’ una constatazione di buon senso, come sa bene Mario Monti e come sa bene il Presidente della Repubblica. Ma cela un imbroglio. Perché uno Stato non è una famiglia; e un bilancio statale non può essere equiparato ad un bilancio familiare. Un bilancio familiare, se ce la fai, è bene che non vada in rosso; al contrario, uno Stato può trovarsi ad operare (e a volte deve operare) in deficit (deficit spending), per promuovere sviluppo. Si tratta di una regola tanto aurea quanto banale, data per acquisita dagli economisti keynesiani e posta a fondamento delle politiche socialdemocratiche: regola spazzata via dall’impostazione monetarista e dalle politiche di classe neoliberiste, le stesse cui il professor Monti concede ampio credito.
A quanto pare, anche il Wall Street Journal – bibbia della borghesia internazionale – ritiene l’impianto marxista, a quasi un secolo e mezzo dalla sua elaborazione, ancora esplicativo delle dinamiche di fondo della realtà odierna. Per noi comunisti è anche lo strumento essenziale in vista di una profonda trasformazione della società capitalistica: ma, nel vivo del conflitto di classe, nel braccio di ferro quotidiano per difendere e rilanciare redditi e diritti delle classi subalterne, Keynes può essere per noi un alleato utile. Il fatto che, in analogia con gli orientamenti dell’attuale Presidente del Consiglio, si fatichi a trovare dei keynesiani persino nel principale partito del centro-sinistra, è un amaro segno dei tempi. Se il principio guida è “consegnare tutto al mercato, ritirare il pubblico dall’iniziativa economica e porre lo Stato in esclusiva funzione di regolatore e guardiano dei conti”, è evidente che la stessa impostazione keynesiana è già fuori gioco. Si badi: gli stessi livelli occupazionali diventano, in tale prospettiva, una mera funzione delle opportunità di mercato. La politica al servizio di Marchionne: questa è la musica di fondo. E allora la stella polare dell’azione pubblica non è più – come è stata per tutta la fase dei trent’anni “d’oro”, successivi alla Seconda guerra mondiale – la “piena occupazione” (o, comunque, un’approssimazione tendenziale alla piena occupazione); ma diviene appunto il “pareggio di bilancio”. E’ stato giustamente osservato che una tale mutazione, resa “costituzionale”, rappresenterebbe una ferita profonda inferta alla nostra Carta fondamentale: l’art.1 (che intende erigere la Repubblica sul lavoro) e l’art.3 (che obbliga la politica a togliere gli ostacoli al progresso sociale, garantendo a ciascun cittadino l’approdo ad una vita degna) sarebbero in questo modo colpiti e violati. In un quadro simile – quello che il professor Monti e i suoi attuali partners europei prospettano per il continente e, in esso, per l’Italia – non ci può essere sviluppo alcuno (della produzione, dei redditi, dei diritti). Non è affatto vero che non vi sia alcuna alternativa a draconiani tagli di spesa, concorrenza e flessibilizzazione del lavoro: così, la cura finisce solo per ammazzare il paziente. La verità è che – come continuano a sostenere gli economisti a noi vicini e, in generale, di sinistra – esiste una spesa pubblica perversa e una virtuosa, un deficit pubblico cattivo e uno buono: è giusto non dissipare risorse e in questo senso risparmiare e “conservare” ; ma è anche giusto prevedere spese in deficit per avviare e rilanciare l’economia e l’apparato produttivo.
Debiti.
Il ragionamento appena fatto vale anche per la questione del debito. Dico subito, in proposito, che l’affermazione “il debito non va pagato”, proposta da settori del movimento “No debito”, va riformulata in termini corretti e sottratta a fraintendimenti. In effetti, la parola d’ordine che ha condotto alla grande giornata di mobilitazione planetaria dello scorso 15 ottobre era “il debito non si paga”, ma nel senso corretto di “NOI non vogliamo pagare il VOSTRO debito”: cioè, eventualmente paghi chi ha i soldi e chi ha le maggiori responsabilità dell’attuale disastro. Va tenuto presente che un eventuale default unilaterale – questo significherebbe il non pagamento del debito – avrebbe conseguenze pesantissime per la nostra stessa gente: infatti, circa il 15% del nostro debito pubblico è detenuta da cittadini italiani (percentuale che sale a 25/30% se si considerano le quote detenute indirettamente da chi ha depositato i propri risparmi o versato i propri contributi nei fondi d’investimento e nei fondi pensione). Oltre a ciò, teniamo presente che l’Italia non è l’Islanda: quest’ultima rappresenta un’economia il cui peso è irrisorio rispetto al nostro e non appartiene all’Eurozona. Dichiarare unilateralmente il default equivarrebbe a mandare a gambe all’aria la moneta unica e con essa l’Europa: beninteso, non sarebbe neanche un male se QUESTA Europa saltasse per aria, a patto che dietro l’angolo vi fosse un’ALTRA Europa, democratica e solidale, cosa su cui c’è purtroppo da dubitare. Più probabile sarebbe invece il ritorno ad una pesantissima (per le classi popolari) autarchia nazionale. Ciò va detto, mettendo comunque in conto il fatto che – oggettivamente – un implosione dell’euro e dell’Unione così com’è oggi non può essere esclusa dal novero delle possibilità: come si è detto, i parametri richiesti per star dentro un’Eurozona a trazione tedesca (e costruita a misura degli interessi del capitale tedesco) comportano prezzi sociali pericolosamente vicini alla soglia massima di tollerabilità. In questo senso – rispetto ai destini del progetto europeo – la signora Merkel ha, nell’attuale delicatissima fase, una responsabilità che non è retorica definire storica.
Quanto a noi comunisti, non dobbiamo desistere e abbandonare il progetto europeo: nonostante tutti i venti contrari, dobbiamo continuare a operare e batterci – nazionalmente e su scala continentale – per un’altra Europa. In questo contesto, la questione del debito non è affatto risolta. Su un punto, difatti, a sinistra mi pare si sia tutti d’accordo: la questione del debito non può essere enfatizzata (assolutizzata) e assumere le sembianze di un feticcio. Qui torniamo alla fallace metafora del buon padre di famiglia: in condizioni eticamente ordinarie, questi è certamente tenuto a pagare i debiti che eventualmente ha contratto. Ma ciò non è affatto detto che valga per gli Stati. Com’è noto, il dato saliente – quello costantemente monitorato e incluso tra i parametri di Maastricht – non è tanto il volume assoluto del debito pubblico quanto il suo rapporto con la ricchezza nazionale prodotta, il fatidico Pil. L’establishment europeo impone che si riduca a tappe forzate tale rapporto dall’attuale 120% al 60% previsto da Maastricht. Ma se è questo rapporto (debito/Pil) a dover essere ridimensionato, non serve a nulla tagliare il numeratore (il volume del debito) se, così facendo, si produce un decremento del denominatore (il Pil). Il rapporto manterrebbe intatto il suo valore. Ed è proprio quello che accade tagliando spesa pubblica e redditi da lavoro: si dà un colpo allo sviluppo, ridimensionando la ricchezza prodotta e in questo modo vanificando i tagli e i sacrifici che essi comportano. Come la Grecia insegna, rincorreremmo la lepre senza raggiungerla mai; e portando il Paese alla rovina. Inversamente, quanto più un Paese produce ricchezza, tanto più si garantisce una gestione positiva del suo debito. Ancora Paul Krugman ricorda che gli Stati Uniti uscirono dalla Seconda guerra mondiale con un ingentissimo debito pubblico, che tuttavia non fu mai restituito: infatti il dopoguerra statunitense fu caratterizzato da uno sviluppo economico talmente esteso e accelerato da arrivare a rendere del tutto irrisorio (o, se si vuole, del tutto compatibile) il rapporto tra debito e Pil. La stessa Italia – annota un autorevole ex ministro di passati governi quale Paolo Savona – sin dagli inizi del secolo scorso, ha fatto registrare ragguardevoli livelli del debito, senza che ciò abbia comportato il tracollo dei suoi conti. In definitiva, a chi sostiene “i sacrifici sono necessari” occorre replicare: è falso, le vostre politiche non solo impoveriscono i “soliti noti” ma ci conducono dritti al disastro.
Eppure, argomentazioni come quelle suddette sembrano oggi messe all’indice. In tempi non molto lontani, la sinistra non mancava di far sentire la propria voce. Nel 2006, prima che deflagrasse la crisi in cui a tutt’oggi siamo immersi, comparve un Appello di economisti – tra i quali figuravano voci autorevoli come quelle di Pierangelo Garegnani, Paolo Leon, Augusto Graziani – schierati a favore di una “stabilizzazione” del debito pubblico e contrari ad un suo “abbattimento”. Certo, la crisi verticale del sistema finanziario e i titanici interventi in suo soccorso operati con denaro pubblico hanno oggi enfatizzato il problema del debito degli Stati. Tuttavia, il quesito di fondo resta il medesimo: se permane l’imposizione agli Stati di draconiani vincoli di spesa e se l’unico esborso di risorse finanziarie pubbliche che viene ammesso è quello che va in direzione del pagamento del debito e degli interessi sul debito – in un contesto in cui le banche europee congelano l’ingente liquidità concessa al tasso irrisorio dell’1% dalla Banca Centrale Europea, non facendola rifluire verso l’economia reale – chi darà ossigeno alla cosiddetta “ripresa”? In definitiva, o l’Italia e l’Europa voltano drasticamente pagina abbandonando le politiche neoliberiste, e prendono decisamente la strada di un nuovo patto sociale, all’insegna di sostegno alla domanda aggregata, di un Piano del lavoro degno di questo nome, di investimenti per il rilancio di uno sviluppo che concretizzi un diverso modello produttivo, rispettoso del progresso sociale e delle compatibilità ambientali – oppure il disastro è assicurato. Purtroppo né l’odierna Italia né l’odierna Europa sembrano avviate su tale strada.
Comunisti e sinistra.
E’ per tutto questo che oggi siamo noi – noi comunisti – a dire che servirebbe una sinistra unita. Ritengo che quanto detto sin qui fondi la possibilità di una tale unità. Abbiamo bisogno di modificare al meglio i rapporti di forza, per dare alla nostra gente la forza di reagire in modo organizzato e solidale alla brutalità capitalistica e corrispondere alle necessità di un duro conflitto. I comunisti non hanno mai ritenuto che quanto più drammatico è il contesto sociale e la condizione materiale delle classi subalterne, tanto più concreta si faccia per queste ultime la possibilità di una riscossa: non crediamo al “tanto peggio, tanto meglio”. Che alla più grave crisi capitalistica del secolo scorso abbiano fatto seguito i fascismi, non lo inventiamo noi: è un dato storico su cui riflettere bene.
Lo diciamo sommessamente. Non c’è bisogno di essere dei rivoluzionari bolscevichi per farsi interpreti dell’analisi e delle conseguenti politiche che fin qui abbiamo provato ad illustrare. Non c’è bisogno di essere comunisti per concordare su alcune elementari trincee di resistenza all’arroganza padronale e all’apparato ideologico con cui essa giustifica i suoi interessi. Quel che proponiamo a quanti, nell’attuale congiuntura, consideriamo dei potenziali compagni di strada (dunque anche a chi comunista non è) è di provare a colmare un evidente vuoto. Nell’autonomia di ciascun progetto politico. Lo richiede chi guarda a sinistra con qualche speranza; e aspetta da noi delle risposte. Le bizze soggettive di questo o quel dirigente lasciano il tempo che trovano (e sono consegnate al giudizio insindacabile della storia): l’essenziale è che la ricognizione dei contenuti su cui fondare un’azione politica comune ci dice che una tale unità di intenti è possibile.