di Domenico Moro – Economista PdCI
Moisés Naim sulla prima pagina del Sole24ore ha definito “asse dei confusi” il gruppo, composto da Hugo Chavez, Daniel Hortega e Fidel Castro, che si rifiuta di denunciare il dittatore Gheddafi per il massacro di civili innocenti. Naim ha, però, scordato di includere un altri due “confusi” nella sua lista. Si tratta di Mike Mullen e Robert Gates, rispettivamente capo degli Stati Maggiori Riuniti e ministro della Difesa statunitensi. I due, come riportato da Rampini il 3 marzo, hanno “persino negato che esistano prove sul fatto che Gheddafi abbia usato aerei ed elicotteri contro la popolazione”.
Eppure, il 24 febbraio il Sole24ore aveva titolato: “Fosse comuni a Tripoli, paese spaccato”, Per l’emittente al-Arabiya i morti sarebbero già10mila, secondo altre fonti un migliaio”, e il 27 febbraio: “Bombe su tripoli, 250 morti, l’aviazione colpisce i manifestanti – Il vice ambasciatore all’Onu: genocidio”. Quella che doveva essere la prova provata, il video del cimitero delle fosse comuni mostrato per giorni a mezzo mondo, si è rivelato essere vecchio e inerente ai lavori di ristrutturazione del cimitero, come precisato dall’inviato della Stampa il 26 febbraio.
Quasi sempre le notizie di massacri di civili riportate dai media si basano su lanci della britannica Reuter, a loro volta fondati su racconti telefonici di libici, ovviamente del fronte anti Gheddafi. Le notizie di massacri sono rimbalzate via satellite attraverso al-Jazeera, riguardo alla quale Karima Moual sul Sole24ore si chiede a che giuoco stia giocando rispetto agli avvenimenti in Nord Africa e ne denuncia una “pericolosa deriva populista di stampo pro-islamico”, e via internet attraverso il sito Debka, vicino all’intelligence israeliana. A tutto ciò si aggiunge la proliferazione, grazie a blog vari, Twitter e Facebook, di notizie di difficile verifica.
Il punto è che negli ultimi venti anni abbiamo avuto molte dimostrazioni di falsi fabbricati ad arte. Potremmo citare un caso analogo a quello libico, le fosse comuni di Timisoara attribuite a Ceaucescu, un altro “sanguinario dittatore”, rivelatesi, a distanza di anni, un falso. Ma il falso più famoso è certamente la prova dell’esistenza delle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, allo scopo di giustificare con ragioni “umanitarie” l’intervento militare occidentale. A proposito di armi di distruzione di massa, quando Matteuzzi sul manifesto scrive il primo marzo: “Scommettiamo che se il colonnello non cade subito, ci sarà qualcuno che le trova anche in Libia?”, non sa evidentemente che Quirico, sul Sole24re, le aveva già trovate il 26 febbraio. Eccone il titolo: “Armi chimiche ‘la grande paura'” e nel testo: “Vero? Falso? Restiamo al fatto, in Tunisia già si preparano”. “Si preparano”, quindi è vero. Sillogismo veramente stringente, non c’è che dire.
Visti i precedenti storici, si imporrebbe maggiore cautela e, invece di arruolarsi frettolosamente nelle fila degli interventisti “umanitari” contro il “sanguinario dittatore”, ci si dovrebbe chiedere cosa accade in Libia, perché si preme per l’intervento militare e, infine, perché il gruppo dirigente Usa è spaccato su questa eventualità.
Molti, anche fra studiosi di vaglia, sono stati colti di sorpresa dai fatti libici. Eppure, il professore della Dartmouth University Dirk Vandewalle in “Storia della Libia contemporanea” del 2006 prevedeva in qualche modo quello che sta accadendo. Paradossalmente la rivolta dipende proprio dalla mancanza del presupposto di ogni dittatura, ovvero un forte Stato e dunque un saldo monopolio da parte di questo dell’uso della forza, mediante le Forze Armate. Per decenni in Libia si è avuta una sistematica politica di limitazione e riduzione delle istituzioni statali, a favore del tradizionale tribalismo e il petrolio stesso è servito al rafforzamento delle alleanze tribali. La Jamairya di Gheddafi non è riuscita a ricondurre le tribù nell’orbita di un’autorità statuale moderna, un po’ per le difficoltà dovute all’isolamento diplomatico ed alle sanzioni Usa, un po’ per l’aspirazione a realizzare un “sistema nel quale il popolo si autogoverna senza ricorrere agli apparati dello Stato moderno.” Dunque, in Libia stiamo assistendo a qualcosa di diverso rispetto a quanto accaduto in Egitto e Tunisia, dove lo scontro è stato di carattere popolare e sociale e l’esercito ha assunto il ruolo di ago della bilancia. In Libia siamo dinanzi a uno scontro tra tribù di aree diverse, Tripolitania e Cirenaica, che non si sono mai veramente amalgamate, e che hanno colto l’occasione del sommovimento in atto in Nord Africa per ridefinire i rapporti di potere e il controllo del petrolio.
Agli occhi di alcune potenze occidentali, Usa e Gran Bretagna in testa, l’occasione così creatasi è apparsa troppo ghiotta per restare a guardare. In primo luogo, la Libia ricopre una grande importanza strategica per due ragioni. La prima è che è posizionata al centro di quella che forse è l’area più decisiva del mondo, il Mediterraneo. La seconda è che detiene enormi riserve di gas e petrolio di buonissima qualità e più vicine ed economicamente trasportabili in Europa. In secondo luogo, questa è l’occasione buona per liberarsi di Gheddafi, colpevole di due peccati capitali, aver cacciato dalla Libia le basi militari e le compagnie petrolifere britanniche e statunitensi. Inoltre, Gheddafi, col sostegno a movimenti di liberazione nazionale e antimperialisti dal Medio Oriente al Sud Africa all’America Latina, è stato e soprattutto continua ad essere una spina nel fianco degli Usa e di Israele.
L’obiettivo americano è, comunque, quello di ridisegnare gli equilibri in un’area che va dal Nord Africa all’Iran, dove la presa della potenza Usa si è costantemente indebolita negli ultimi anni, a seguito del fallimento della politica di Bush. A questo scopo, gli Usa stanno cercando di inserirsi nei sommovimenti in atto. Anzi, c’è il dubbio che abbiano messo lo zampino anche nella fase delle rivolte, come dimostrerebbe l’esistenza di un progetto, riportato da Wikileaks, di liberarsi di Mubarak, ormai non più affidabile, o il ruolo di un’istituzione americana come American Freedom nel training di blogger anti Ben Alì, come riportato da Alberto Negri il 14 gennaio sul Sole24ore. In Egitto, l’operazione di riassetto avviene attraverso le Forze Armate egiziane e il vice presidente Suleiman, che è storicamente trattino d’unione dei militari egiziani con Usa e Israele. In Libia attraverso la frammentazione del Paese sulla base delle divisioni tribali, secondo il modello sperimentato in Iraq, attraverso il dispiegamento di una massiccia campagna mass mediatica internazionale contro Gheddafi.
Visto che, nonostante tutto, i ribelli non riescono ad avere ragione di Gheddafi, è proprio sulla linea politica da adottare in Libia che si è verificata la spaccatura all’interno della dirigenza Usa, che – paradossi della storia – avviene a parti invertite. Mentre il segretario alla Difesa Gates, ex ministro di Bush, e i militari si sono detti contrari all’intervento, il presidente Obama, premio Nobel per la Pace e già considerato da milioni di americani ed europei come il candidato pacifista, sembra invece propenso all’azione diretta. Gates è conscio che gli Usa non possono sostenere una terza guerra contemporaneamente, semplicemente non ne hanno i mezzi. Anche imporre una no-fly zone richiederebbe la distruzione preventiva delle difese aeree libiche, cioè la guerra. Nella stessa occasione, alla fine di febbraio, in cui diede del matto ad un eventuale politico Usa che decidesse una nuova guerra, Gates ammise, a proposito delle guerre del recente passato degli Usa: “ogni volta ci siamo trovati a non avere neppure idea delle missioni in cui ci saremmo dovuti impegnare.”
Ecco, se gli interventisti “umanitari” italiani avessero almeno un po’ della prudenza di Gates non sarebbe male. A distanza di dieci anni dallo scoppio della “guerra al terrore” i risultati ottenuti dalle forze occidentali in Iraq e in Afghanistan sono catastrofici. Alcuni sembrano dimenticare che le guerre “umanitarie” non hanno portato democrazia, bensì destabilizzazione, guerre fratricide ed estremismo islamico lì dove non c’era, come in Iraq. Senza contare i bombardamenti sui civili – questi certi-, commessi dai “volenterosi” in Iraq e dalla Nato in Afghanistan. Un intervento occidentale in Libia, avrebbe un effetto ancora peggiore, perché questa volta l’Afghanistan sarebbe alle porte di casa nostra e perché l’impatto della presenza di eserciti occidentali in Libia sarebbe devastante su tutti i Paesi arabi dell’area mediterranea.
L’Europa e soprattutto l’Italia, viste le sue responsabilità del periodo coloniale, dovrebbero evitare qualsiasi ingerenza. Invece di esacerbare i dissidi tra libici, bisognerebbe favorire una soluzione negoziata tra le parti in lotta, che, però, salvaguardi imprescindibilmente l’unità territoriale e l’autonomia della Libia.