Ritorno a Casa Cervi, lezione partigiana per l’Italia di oggi

di Orsola Casagrande

da Il Manifesto

Tre giorni di politica e storia nella prima festa nazionale dell’Anpi. Chiusa a Gattatico, di fronte all’abitazione della famiglia Cervi, sterminata dai nazisti nel novembre 1943. Migliaia di persone per ricordare e rivivere

Si respira una certa emozione in questa domenica mattina. C’è già tanta gente a casa Cervi e il girotondo di parole e di accenti rivela che sono arrivati da tutta Italia. Perché attraversare il podere dove vissero e furono arrestati i sette fratelli Cervi, entrare nelle stanze di questa famiglia resistente non è come visitare un museo qualunque. Qui si respira la storia che è presente. Trovarsi di fronte Adelmo (indaffarato nei preparativi della festa) figlio di Aldo, e i nipoti degli altri Cervi, i figli di Maria, figlia di Antenore Cervi e mancata l’anno scorso, mozza il respiro. Non è romanticismo è che a entrare e uscire da queste stanze ti pare di vederli i sette figli di Alcide, che cospirano, tramano, lavorano la terra, ridono. Fino a quegli ultimi momenti, quel «fatale 25 novembre 1943» come lo chiama Alcide Cervi nel suo libro I miei sette figli.

«Era notte, pioveva a dirotto, e noi dormivamo tutti. A un certo punto ci svegliano i lamenti del bestiame e colpi di fuoco. Che è? – dico io – e scendo dal letto. Nel corridoio c’è Aldo, e gli altri aprono le porte, ci mettiamo a guardare dalle finestre. Sparano dai campi intorno alla casa, altro non vediamo. Poi viene una voce forte dalla campagna: ‘Cervi, arrendetevi!’ Non diciamo parola e prendiamo subito le armi. Le donne trascinano nelle stanze le cassette delle munizioni. Genoeffa stava vicino alla porta della camera da letto, muta. La vedo come se fosse adesso, pallida e con gli occhi accesi. Poi si scuote e si mette a calmare i bambini. Intanto noi abbiamo infilato le pistole tra gli scuri. Aldo ha un mitra e apre il fuoco. Anche gli stranieri sparano con noi. Ci rispondono altri colpi e il fuoco dura qualche minuto. Poi noi cominciamo a scarseggiare nei tiri finché ci guardiamo tutti e ci parliamo nelle stanze, le munizioni sono finite. Aldo guarda dalla finestra verso il fienile, vede un bagliore, e dice: ‘brucia, non c’è più niente da fare’. Io dico: Non mi arrendo a quei cani, andiamo giù tutti quanti e meglio morti che vivi. Aldo mi ferma e dice: ‘No papà, che ci sono le donne e i bambini. Meglio arrendersi’. Così scendiamo le scale, piano per l’ultima volta».
E’ con queste parole sempre in testa che si attraversa casa Cervi. E’ anche con queste parole in testa che l’Anpi ha deciso di tenere la sua prima festa nazionale. Non a caso quest’anno. «Ce n’è bisogno di questi tempi – dice una vecchia partigiana di Cuneo – e per fortuna che ci sono tanti giovani». Infatti, di giovani ce ne sono molti in questa torrida giornata padana. Tre giorni di festa. Domenica scorsa ci saranno state diecimila persone. Tantissime. Nemmeno gli organizzatori se l’aspettavano e sono costretti a riciclare i vassoi tanti sono i pranzi da servire. Visibilmente emozionata, Fulvia Alidori, ricorda Maria, la sorella dei sette Cervi, che è morta lo scorso anno. «E’ stata lei a volere fortemente questa festa – dice Fulvia – instancabile andava in giro per l’Italia a raccontare la sua storia ma soprattutto a cercare le persone che avrebbero potuto aiutarla in questa impresa». Se Maria fosse qui, lo dicono in tanti, sarebbe felice di vedere quanta gente è accorsa a casa Cervi. Ci sono stage e seminari, musica e cibo. Si sta insieme, si fa capannello. C’è quello con la chitarra che suona il repertorio della resistenza. Ci sono le donne e gli uomini della resistenza. Dalla Toscana, dal Piemonte, dal Veneto e naturalmente dall’Emilia Romagna. Tre partigiani, classe 1926, si danno di gomito e ridacchiano di fronte ai cartelli che il soccorso medico ha appeso a tutti gli alberi, ‘si raccomanda di bere tanta acqua’. «Non siamo morti contro i fascisti – dicono – ti pare che moriamo per un po’ di caldo». E in effetti tengono botta per tutta la giornata. Intrattengono i giovani con i loro racconti. Cercano riparo sotto gli alberi e aprono ancora una volta il cassetto dei ricordi. Che hanno il sapore di realtà, sempre attuali. Qualcuno tra i ragazzotti nota che i vecchi della resistenza sono più allegri degli altri anziani. «La lotta partigiana – dice Nella che viene dal Piemonte – ci ha segnato per tutta la vita. E’ come stare sempre in una grande famiglia. Magari – aggiunge – ci si ritrova solo una volta l’anno, il 25 aprile, ma è come se ci si vedesse tutti i giorni». Lei ha cominciato facendo la staffetta ma poi ha preso il fucile. «Eh figurati – dice – i miei non volevano, avevano paura e il mio fidanzato mi aveva detto di non andare sulle montagne. Sai che cosa gli ho risposto? Che poteva anche non farsi più vedere». Nella ride a ricordare. Canta tutte le canzoni. Si commuove quando Ivana Monti e il coro delle mondine di Novi cantano la storia dei fratelli Cervi.
Alcide Cervi sposa Genoeffa Cocconi nel 1899. Hanno nove figli, sette maschi e due femmine: Gelindo, Antenore, Diomira, Aldo, Ferdinando, Rina, Agostino, Ovidio ed Ettore. In casa di Alcide e Genoeffa era comune veder circolare libri ed opuscoli; nonostante la scolarizzazione nelle campagne fosse molto bassa a quel tempo, i loro figli erano stati allevati con l’amore per la lettura e il sapere. Tra i Cervi, il primo a conoscere le pene del carcere è Aldo, il terzogenito, per una ingiusta condanna durante il periodo di leva. Mentre la famiglia continua a chiedere giustizia, Aldo passa 25 mesi dietro le sbarre a Gaeta, dove ha modo di conoscere i prigionieri politici: intellettuali e esponenti dei movimenti antifascisti che sono in carcere per le proprie idee contro il nuovo potere dittatoriale. E’ proprio il carcere che porta Aldo a conoscere le teorie politiche antifasciste, e a interpretare il proprio impegno per la libertà in modo più maturo e consapevole. Essere antifascisti durante il regime significa agire in stretta clandestinità, e al ritorno dalla detenzione nel 1932, Aldo Cervi è ben consapevole del rischio, insieme ai fratelli e ai familiari che iniziano da subito a condividere quell’impegno. Anche la cultura, a cui i Cervi sono tanto appassionati, è caduta sotto i colpi del regime. La famiglia istituisce una biblioteca popolare, allo scopo di diffondere liberamente libri e riviste di ogni tipo. Aldo e la sua famiglia sono consapevoli che lo studio e la circolazione delle idee sono il primo antidoto contro la propaganda e l’arroganza della dittatura. Nell’ottobre del 1943 i Cervi danno vita alla prima formazione partigiana della regione, anticipando un movimento che, nei mesi successivi anche se con ritardi, difficoltà e differenze da zona a zona riesce a radicarsi in modo non paragonabile a nessu’altra realtà regionale.
L’Anpi ha voluto chiamare la sua festa «democrazia e/è antifascismo». Ha chiamato Rita Borsellino a raccontare la «nuova resistenza» cioè «la lotta contro la mafia». E lei ha risposto, commossa, durissima nel suo giudizio della mafia e ancor più dello stato che consente che «un terzo del paese sia in mano alla mafia».
Con lei anche don Gallo, della comunità di San Benedetto al porto di Genova. Sigaro in bocca, fazzoletto dell’Anpi e sciarpa rossa al collo, ha invitato tutti ad «alzare la testa e a tenerla ben alta» in questi tempi cupi. E’ intervenuto anche Luigi Ciotti, anche lui durissimo, contro i cpt, i centri di detenzione per stranieri, da chiudere. Ci sono stati interventi di storici. E le donne hanno raccontato la loro resistenza. Vinicio Capossela ha regalato due canzoni a questa festa straordinaria. Il coro trentino ha intonato le canzoni che tutti sanno e cantano felici, brindando con il lambrusco.
«Il futuro dell’Anpi è ora», recitava lo slogan che ha accolto le decine di migliaia di persone giunte da tutta Italia. E che se ne vanno a casa convinte a sera, ancora cantando, negli occhi i volti di partigiane e partigiani, dei sette fratelli Cervi, dei tanti che hanno dato la vita per la libertà.