Appelli italiani e blog cinesi: la verità sugli scontri tra monaci e polizia non è una sola. A Pechino monta il risentimento contro il “complotto occidentale”
di Cecilia Tosi
da Left
Domenico Losurdo, ma anche Sergio Romano. Gianni Vattimo, ma anche Luciano Canfora. Non è la lista dei candidati del Partito democratico, ma quella dei firmatari di un appello che invita tutti a protestare contro «un’indegna campagna di demonizzazione della Repubblica Popolare Cinese». Dopo le dichiarazioni di solidarietà arrivate ai ribelli tibetani da ogni parte del mondo, da altri fronti sono giunte le critiche a giornali e televisioni occidentali, ritenuti colpevoli di aver dato spazio solo a una delle possibili interpretazioni della verità. «La realtà – scrivono i firmatari dell’appello – è che nel suo folle progetto di dominio planetario, l’imperialismo mira a smembrare un Paese che da molti secoli si è costituito su una base multietnica e multiculturale», Più pacati, ma egualmente polemici, i toni degli interventi sul forum di Associna, l’Associazione italiana delle seconde generazioni cinesi: «Non riesco a capire ’sti monaci, le fede buddista li dovrebbe guidare verso la ricerca di sè stessi, la meditazione e vivere lontano dalla politica. Perché devono fare politica?» scrive “Jie”. «Altro che pacifisti questi monaci», concorda “Zsw”, «bruciano auto della polizia e negozi, ci manca solo che fanno attentati. Non vi pare che siano per di più estremisti?».
Appena un mese fa, il 10 marzo, 300 monaci tibetani manifestavano a Lhasa per chiedere la liberazione dei loro compagni in carcere. Pochi giorni dopo le proteste si trasformavano in scontri e le violenze venivano alimentate da voci di torture e arresti eseguiti dalla polizia cinese. Il 15 marzo i rappresentanti dei tibetani in esilio dichiaravano che le vittime buddiste della repressione erano almeno cinque e contemporaneamente alcuni manifestanti cominciavano a scagliarsi contro automobili e negozi dei “non tibetani”. L’unico corrispondente occidentale autorizzato a documentare i disordini, James Mill dell’Economist, dichiarava alla Cnn che quella che aveva visto era «una violenza calcolata e indirizzata esattamente contro un gruppo etnico, o addirittura due: in primo luogo i cinesi di etnia han che vivono a Lhasa, ma anche i membri della minoranza musulmana hui».
Oggi, secondo Pechino, il Tibet è tornato all’ordine, ma mentre le comunità di esuli denunciano più di cento morti, le autorità cinesi negano di aver represso le manifestazioni con la forza e denunciano il Dalai Lama e «i suoi alleati occidentali» di aver orchestrato uno spettacolo di diffamazione preolimpionica.
«Sia quella tibetana che quella del governo cinese sono visioni di parte», commenta l’italo cinese Junyi Bai, tra i sostenitori delle iniziative della Rete G2 – Seconda Generazione, «posso solo rilevare che su tutta la questione c’è una grande disinformazione e che chi ha più potere riesce sempre a far valere la sua posizione. Separarei comunque le manifestazioni dello scorso mese dal discorso dell’indipendenza del Tibet: durante le proteste di marzo sono state scattate molte foto che testimoniano come alcuni manifestanti non fossero affatto pacifici». Per giustificare la violenza degli scontri, alcuni hanno fatto circolare un’immagine che ritraeva poliziotti cinesi nell’atto di togliersi la maschera da monaci, «ma sull’attendibilità di quello scatto c’è molto da dubitare», fa notare Junyi Bai, «viste le dichiarazioni della dell’agenzia di stampa indipendente Canada free press, che attribuisce l’origine dell’immagine a un film girato nel 2003».
Se le notizie provenienti dal Tibet sono poche e filtrate, il risentimento scatenato in Cina dalla campagna internazionale di boicottaggio delle Olimpiadi è certo. «Su internet, specialmente sui blog, circola l’indignazione», ci spiega Mauro Marescialli, autore di Dizionario pechinese (Nuove edizioni romane, 2008), «e la maggior parte dei media occidentali vengono accusati di faziosità. Gli internauti sostengono ad esempio che la rete televisiva Cnn abbia tagliato una foto di un convoglio di camion militari che rincorrevano due tibetani. Nella parte tagliata si vedrebbe che le forze di sicurezza erano bersagliate dal lancio di oggetti contundenti. E sui giornali tedeschi sarebbero apparsi scatti che ritraevano militari indiani o nepalesi nell’atto di bastonare i monaci nei loro Paesi, mentre il titolo recitava “Repressione in Cina”».
In tanti a Pechino sono ormai convinti che le Olimpiadi siano un’occasione ghiotta per alcuni “malintenzionati”. E cioè per quegli Stati che vogliono sfruttare ogni possibilità per sfogare un malcelato risentimento contro un Paese che ha avuto una crescita economica così rapida. Sul forum di Associna c’è chi parla addirittura di razzismo: «quello anticinese di oggi», scrive “Cavallo”, «è, come altri razzismi, figlio del senso di vuoto e di crisi di una società occidentale che vede crollare la sua egemonia in tutto. Non ti preoccupare: sono sintomi del suicidio di un modello intero!».