di Orsola Casagrande
da Il Manifesto
I racconti dei migranti usciti dal centro di corso Brunelleschi a Torino
Non si respira una bella aria a Torino. Sali sull’autobus e l’unica cosa di cui si parla sono i rischi che si corrono sui tram e sui pullman. Rischi? «Non hai sentito? – dice una giovane donna – qui ormai è il Far West». L’autobus è il 67, lo stesso dove qualche giorno fa i vigili urbani hanno spadroneggiato con fare effettivamente un po’ da cowboys, intimando ai cittadini stranieri presenti di scendere, dividendo uomini da donne e esibendosi in controlli accompagnati da frasi come «la pacchia è finita». E a chi mostrava la carta d’identità italiana, «non ce ne frega nulla della vostra carta italiana, questo non è più il paese delle meraviglie».
Al mercato di Porta Palazzo, storico quartiere delle differenze e per questo uno dei luoghi più ricchi e interessanti, il clima di questi giorni si traduce in poca voglia di parlare da parte dei cittadini stranieri. Che però non riescono a trattenersi più di tanto, perché di voglia di parlare ne hanno molta. «Non capiamo – dice un giovane fruttivendolo marocchino, Abdul – ci sembrava che tutto questo odio potesse finire, anzi credevamo che fosse se non finito almeno un po’ contenuto e invece è riesploso». E in modo violento. Siccome qui quasi tutti hanno subito l’umiliante esperienza di una detenzione nei cpt italiani, è facile sapere cosa sta accadendo dentro corso Brunelleschi come in altre galere. La morte del giovane detenuto tunisino a cui sarebbero stati negati i soccorsi è avvenuta soltanto due settimane fa, ma è già stata dimenticata. Non qui a Porta Palazzo. «La Croce Rossa non ti aiuta – dice M. – se stai male puoi sgolarti ma se non hanno voglia di venire non vengono. Il medico ti visita solo se gli va». L’inchiesta sulla morte del giovane è aperta. In questi giorni dovrebbe essere depositata l’autopsia che servirà a chiarire le cause della morte. Quelle mediche. Perché poi rimane il fatto dei soccorsi. E su questo il magistrato dovrà fare chiarezza. Le testimonianze dei detenuti che hanno assistito impotenti alla morte del loro compagno sono chiare. «Abbiamo urlato ma non è venuto nessuno». Chi c’era, chi ha chiesto aiuto, è stato prontamente deportato, espulso nei giorni immediatamente successivi alla morte. Gli abusi e le violenze continuano. Lo conferma il racconto due ragazzi appena usciti dal centro di corso Brunelleschi. «Siamo trattati come bestie – dice A., marocchino – poi quando alla polizia gira ci prendono e ci portano in una stanza e lì ci picchiano». Questa stanza dei pestaggi è ricorrente nelle storie di tanti e non solo nel centro torinese. Anche negli altri cpt infatti i detenuti raccontano di essere stati portati ammanettati in una stanza e lì pestati a sangue. Fare denuncia è difficile e comunque molto spesso una denuncia non ha seguito. Si ferma, si arena nei tribunali italiani. Muore. Lo conferma l’avvocato Gianluca Vitale che proprio in questi giorni ha depositato l’ennesima denuncia. «Il giovane marocchino che rappresento ormai è stato espulso. La denuncia riguarda le botte prese mentre era ammanettato», dice Vitale. Intanto, nel silenzio dei media, le espulsioni dei testimoni di quella tragica notte sono proseguite. Un altro giovane tunisino di ventinove anni racconta al telefono di non avere «più speranza. Dopo cinque anni in Italia, senza permesso, costretto a arrangiarmi come meglio potevo, dopo tre anni di carcere ho deciso che è meglio tornare al mio paese. Non mi aspetta una vita serena, ma di stare in Italia non me la sento». E’ stato lui a trovare il giovane compagno morto due settimane fa. «E per fortuna – dice – che lo conoscevo da quando eravamo al paese, perché lui aveva detto di essere marocchino e oggi non avrebbe avuto nemmeno la possibilità di essere sepolto a casa sua, dove sono i suoi familiari». Sulle condizioni del centro il giovane dice che «purtroppo solo noi che viviamo qui dentro sappiamo cosa significa, l’umiliazione quotidiana, la violenza anche psicologica perché non c’è solo la violenza fisica. In fondo eravamo venuti qui inseguendo un sogno, quello di vivere meglio, trovare un lavoro. Speravamo di trovare qui quella possibilità di realizzarci che al nostro paese non ci è stata data. Non è stato così. La vita normale che sognavamo non si è realizzata».