di Marco Sferini
Avevo provato alcune volte ad immaginare una vita politica e sociale priva di Rifondazione Comunista: l’avevo immaginata non tanto come una scena dove fosse rappresentato un Parlamento senza comunisti o, anche più modestamente, senza deputati e senatori di sinistra. No, l’avevo figurata nella mia mente proprio come un tessuto sociale dove non esistesse più alcun ruolo per i comunisti, prescindendo dunque – e chissà mai per quale ragione – dalla disposizione parlamentare del Partito, dal suo ruolo nelle istituzioni. Forse un riflusso di libertarismo anarcoidaile, o forse una riflessione monca, costruita con i mattoncini di un pensiero che non avrebbe mai contemplato il risultato elettorale dello scorso aprile dove, preludio ad una nostra fuoriuscita dalla vita sociale del Paese, si è manifestata in tutta la sua dirompenza la serrata delle porte di Palazzo Madama e Montecitorio per il PRC e per gli altri soggetti politici che avevano raffazzonatamente dato vita a la Sinistra l’Arcobaleno.
Siamo in piena fase congressuale, e così anche i Comunisti Italiani, i Verdi e Sinistra Democratica. Ognuno per sè in questo momento. Ognuno “in fondo perso dentro ai fatti suoi”, mi pare cantasse Vasco Rossi. E ce n’è ben donde: non mancano infatti i motivi per riprendere in mano le redini dell’elaborazione certamente concettuale e di profonda analisi, ma anche per sviscerare le cause di una crisi di consenso sociale che non ha precedenti per i comunisti, per la sinistra.
Durante la tornata elettorale il corpo militante del Partito ha sentito delle precise, laconiche e icastiche parole d’ordine: “Fare la sinistra unita e plurale”, seguite dall’ormai celebre diktat: “Con chi ci sta!”.
I nostri compagni e le nostre compagne hanno ascoltato la giaculatoria peregrina dell’ “oltre Rifondazione”, quasi fosse il tasso di misurazione della volontà di ognuno di noi di dedicarsi o no all’impresa della fondazione di quella costituente della sinistra tanto caldeggiata dal compagno Bertinotti e sostenuta dai giovani rampanti più o meno ex o ancora comunisti.
Oggi, quei compagni e quelle compagne che sostenevano un percorso di superamento graduale o meno del Partito della Rifondazione Comunista, si ritrovano nelle tesi espresse dal documento del compagno Nichi Vendola. Un documento che nella sua prima parte si mostra generoso di espressioni volte alla salvaguardia del progetto politico della “rifondazione comunista” e che afferma di escludere qualunque ipotesi di scioglimento del PRC. Questo per quanto concerne la prima parte. Ma se la pazienza non ci abbandona e si seguita la lettura, si potrà vedere come dal capitolo 4 in poi si ripetano concetti che prefigurano chiaramente, senza alcuna interpretazione di sorta, quale debba essere la destinazione finale di quel partito nato nel 1991 e che oggi, avendo tastato gli umori della base militante, non si può scrivere di voler chiudere con un congresso.
Scrive, infatti, Nichi Vendola nel già citato capitolo 4, al paragrafo “a”: “Costruire una nuova soggettività della sinistra, nella politica, nella società e nella cultura di questo Paese. Un processo costituente a dimensione unitaria completamente rimotivata nel ‘qui ed ora’ dei compiti di opposizione generale che sono oggettivi e incombenti: perciò aperto in tutto e per tutto e fatto per rivolgersi, attraverso e oltre tutti i soggetti politici già ora disponibili…”.
Se le parole sono quello che vogliono essere e non bizantinismi messi lì per dare vita ad un dolce stil novo del politichese, è evidente che, parafrasando il tutto, la costruzione di una “nuova soggettività della sinistra” che sia un “processo costituente a dimensione unitaria” e che si faccia “attraverso e oltre tutti i soggetti politici”, ebbene se le parole sono queste, come vedete ripetute in sequela e senza alcun intento fazioso, vogliono con tutta sincerità dire che per fare una sinista moderna, nuova occorre superare ciò che oggi esiste e quindi anche Rifondazione Comunista che, se non sbagliamo, è al centro della discussione delle mozioni congressuali tutte.
Ecco una delle leve di comprensione della divisione che è avvenuta all’interno della vecchia maggioranza di Venezia e che oggi è quella che alza l’orpello che vorrebbe invece coprire le ragioni di cultura politica che stanno alla base della contrapposizione tra il documento 1 di Acerbo, Ferrero, Grassi, Mantovani e Russo Spena e il documento 2 di Vendola, Giordano, Gianni e Migliore.
Ho sempre pensato che anche dalle minuziosità di un carattere, di una qualsiasi espressione di intenti, si possa ricevere qualche segnale più complessivo, generale. In fondo il modo in cui ci rapportiamo con gli altri non è costituito da una sola forma di comunicazione. Ci sfuggono tantissimi nostri messaggi involontariamente subliminali, ma che lo sono perchè nascono da ciò che sentiamo, da ciò che pensiamo e che vogliamo, quindi, comunicare all’esterna da noi.
“Manifesto per la rifondazione”, si intitola la mozione del compagno Vendola: e voi direte, dove sta questa minuscola caratterizzazione politica? Nella parola “rifondazione”, che per essere un elemento minuscolo lo è, a dire il vero, del tutto: infatti non si scrive un manifesto per la “Rifondazione” intesa come partito, ma per la “rifondazione” intesa come processo non più associato al comunismo, ma ad una inespressione di aggettivi che dovrebbe essere quindi la caratteristica prima della nuova sinistra del millennio.
Io non credo che la costituente della sinistra che si propongono di attivare i compagni e le compagne del documento 2 sia di per sè deleteria, abbia un connotato di innatismo portatore di sciagure e cataclismi per i progressisti più o meno marxisti, più o meno comunisti, socialisti o ecologisti.
Se oggi siamo al gradino più basso della nostra storia, della nostra funzione di incidenza – lo vogliamo dire senza troppa enfasi? – “rivoluzionaria” (nel senso di capacità di rovesciare anche gradualmente determinate situazioni create dal capitalismo), lo dobbiamo prima di tutto al distacco che abbiamo prodotto tra noi e tutti coloro che si aspettavano dall’azione di governo una risoluzione delle problematiche sociali che non si è verificata. I poteri c.d. “forti” hanno saldato molto bene un patto tra di loro e hanno ottenuto, con una intelligentissima manovra neo-borghese del Partito democratico, quella pace sociale che è la morte del conflitto di classe, che è la sospensione, la passivizzazione della coscienza classista e che relega il moderno proletariato al ruolo esistenziale che Marx definiva “classe in sé”.
Una sinistra senza aggettivi non ha altro orgoglio se non quello di dirsi separata dalle storie operaie, dalle lotte sociali dei tempi ormai passati e ha la faticosissima ambizione, un poco presuntuosa, di essere la rappresentante di un nuovo modo, quello ovviamente vincente, di proporsi come forza propulsiva per la riscossa sociale, avendo abbandonato la vecchia cassetta degli attrezzi e lasciato al suo destino la “vecchia talpa” che scavava, scavava incessantemente…
Ci attende, dunque, un congresso di svolta, ci attende un congresso per decidere. Per decidere se proseguire nella costruzione del Partito della Rifondazione Comunista scansando nuovismi che non vogliono connotarsi ma che sono in odor di socialismo riformista e, al contempo, riproposizioni caricaturali del Comunismo non come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, ma come richiamo ad una aggettivazione esasperata e, altrettanto presuntuosa quanto la costituente della sinistra, laddove ritiene e pensa che solo i comunisti siano necessari e che il dialogo e il cammino comune con le altre forze politiche e sociali di progresso sia un elemento inquinante del valore rivoluzionaro reclamato.
Ricordo questa frase di Marx con grande piacere ogni volta che mi viene in mente quache fregola isolazionista o dai contorni settari: “Il proletariato deve marciare con il grande esercito democratico alla punta dell’ala sinistra, ma guardandosi bene dal rompere ogni legame con il grosso dell’esercito. Il proletariato non ha il diritto di isolarsi, ma esso deve, per quanto ciò possa sembrare duro, respingere quanto potrebbe separarlo dagli alleati.”. Ecco, io credo che l’attualità di questo pensiero del filosofo di Treviri sia così forte e necessaria da consegnarci un compito: fare di Rifondazione Comunista un partito comunista autonomo, che sappia reagire alle politiche delle destre con una azione di costruzione di una vasta opposizione sociale, che sappia rimettere a nuovo un comune senso antifascista capace di battere i neofascismi e la xenofobia che nascono dallo sfruttamento delle disperazioni sociali da parte delle forze reazionarie della destra. Una Rifondazione Comunista che sia, per tutto questo, unitaria con tutti coloro che sentono il dovere di cambiare la società a misura d’uomo e non di profitto. I comunisti sono tali solo se accettano questa grande, importante sfida per il futuro.