di Elena Ulivieri
Qualche settimana fa sono uscita a cena con la compagna Martina. Avevamo deciso di recarci assieme al Gas, (gruppo di acquisto solidale, quello con le verdurine fresche biologiche, i formaggi e il latte, la ricotta e lo yoghurt prodotti da agricoltori locali; quello della “spesa a chilometri zero” e dell’agricoltura omeodinamica) che si riunisce ogni mercoledì presso la sede di un centro sociale in periferia vicino al periferico paese dove abitiamo. Abbiamo scelto una pizzeria molto popolare e altrettanto economica, a metà strada tra casa e Gas. In quell’occasione ho proposto a Martina di prendere la tessera di Rifondazione Comunista. Mi immaginavo che mi avrebbe detto di no, così, quando lei mi ha detto di no, ho amaramente precisato che per me era importante chiederglielo, più che ottenere una risposta positiva.
Voglio un partito per cui poter insistere.
Voglio un partito che conosca la storia. E che la sappia raccontare. Che organizzi seminari nazionali, dove i partecipanti ascoltino del fascismo, della Resistenza, delle guerre sanguinose, fredde e di (non) pace. Che dia gli strumenti per scovare il revisionismo – dilagante, sui media e, ormai, anche nelle parole di chi ci è vicino.
Voglio un partito che conosca l’economia. Che spieghi la crisi dei mutui subprime e i punti di pil che passano dal lavoro salariato alle imprese. Che indichi i testi da leggere e smascheri quotidianamente il capitalismo e i suoi bravi, come un instancabile D’Artagnan.
Voglio un partito che sappia portare i compagni e le compagne alla convivenza produttiva. Non voglio solo le regoline per le femminucce. Non voglio fare l’uomo per sentirmi una donna ascoltata (vedi alla voce “lei è una con le palle”).
Voglio un partito che non sprechi risorse. Ricordo che a Carrara una compagna del Lazio si era indebitata personalmente per le spese del circolo. Quel circolo deve diventare ricchissimo. Non voglio più sentir parlare di progetti mastodontici, capricciosi e irrealizzabili (magari mai portati a termine), ma soprattutto costosissimi e incomprensibili ai più, decisi nel chiuso di una stanza da pochi sprovveduti e maldestri dirigenti, sole od ombra che siano.
Voglio un partito dove l’identità è importante. E non viene trascurata. Perché se si trascura l’identità poi si dice che siamo “vecchi” o “nostalgici”. Voglio un partito che non tenti di nascondere i propri simboli. Voglio un partito che non segua le mode lanciate da chi ci è lontano e ha da farsi la propaganda. Voglio vedere le falci e martello sui manifesti del mio partito.
Voglio un partito amico di Cuba, della Palestina e del Venezuela (e che abbia un giornale che non faccia il verso a “Libero” quando ne parla). Che conosca la storia e il presente dei paesi. Che si confronti con gli altri partiti fratelli nel mondo e che sappia collocarsi in un contesto europeo ed extraeuropeo senza l’imbarazzo di nessuno.
Voglio un partito che conosca se stesso, la cui classe dirigente non sia soltanto autoreferenziale. Sì, perché ogni tanto l’autoreferenzialità può scappare. E – diciamocelo – a volte è divertente litigare. Ma poi si deve fare pace ed iniziare a litigare per davvero, per arrivare alla preziosa e necessaria sintesi collettiva (e la collettività è formata anche dai compagni della base, per chi se n’è dimenticato).
Voglio un partito che conosca il vocabolario. Che non si permetta di parlare col linguaggio del potere, che sappia evitare gli aggettivi, i sostantivi, le espressioni e i latinorum televisivi, e che curi attentamente anche le virgole e gli accenti. Senza scivolare in metafore lontane dalla realtà.
Voglio un partito con Linux o, al limite, con Open Office. E con un sito internet che fornisca le informazioni utili agli iscritti e alle iscritte. Gli ordini del giorno, i comunicati stampa, i manifesti, il simbolo (non soltanto il contrassegno elettorale), le fotografie, gli approfondimenti, le lettere e le risposte.
Voglio un partito senza nomi e senza facce. Appartenere ad un partito non deve significare “essere di” qualcuno, né il partito stesso dev’essere “di qualcuno”. Nostro, dei compagni e delle compagne, dev’essere.
Voglio un partito che renda la voce degli sfruttati più forte, e che non si allontani più da chi vuol rappresentare. Voglio un partito che rilegga Antonio Gramsci, che io non conosco bene, ma che forse alcuni compagni che conosco citerebbero opportunamente, spiegando qualcosa su come si organizzano dirigenti, intellettuali, militanti e simpatizzanti.
Voglio un partito per la pace.
Voglio un partito così.
Per questo appartengo al partito della Rifondazione Comunista. Perché è il luogo che più si avvicina a quello che serve. E per questo voterò e farò votare la mozione Acerbo Ferrero Grassi Mantovani, che poi è la uno, perché non fa un sognante discorso sulla precarietà della vita, del mondo, della terra e del cielo, ma che prova a ritrovare quel filo che un po’ di volte ci è scivolato dalle mani.
Abbiamo dimostrato il nostro coraggio e la nostra determinazione in molte circostanze, per cose piccole e per cose grandi. Facciamolo ancora, ché questa, adesso, è la più grande di tutte.
E magari Martina s’iscrive.