I veri nodi in gioco nell’agenda di Rifondazione

di Alberto Burgio

su Il Manifesto del 04/06/2008

Se Rifondazione comunista non riesce a essere sede di un «lavoro comune di indagine e proposta» per l’elaborazione di una «visione comune» alle forze della sinistra; se non riprende il cammino della Sinistra Arcobaleno, bruscamente interrotto dalla disfatta elettorale, allora il suo travaglio è sterile e insignificante. In questo caso, «che ci importa del suo congresso?». Così Rossana Rossanda chiude la sua lettera a Rifondazione (il manifesto, 17 maggio 2008). Provo a rispondere non eludendo la questione. Cruciale, ma alquanto dilemmatica.

Rossanda mette in chiaro quel che a lei, «vecchia comunista», sta più a cuore. Il problema dei problemi è il lavoro, la solitudine del lavoro dipendente. Sul piano materiale, il problema si chiama precarietà, basso salario, disoccupazione. E ancora: peggioramento delle condizioni di lavoro (ritmi, orari di fatto, carichi, ripetitività, infortuni); non riconoscimento delle prestazioni reali; aumento delle differenze normative e salariali, oggi tra segmenti della stessa filiera, domani tra singoli dipendenti della stessa impresa. Queste alcune delle questioni essenziali.
Che cosa comporta una simile impostazione? Forse che ci si disinteressi degli altri terreni di conflitto: delle questioni ambientali e istituzionali, delle differenze di genere e dei diritti civili, della guerra e dei diritti umani? Naturalmente no. Certo però porta con sé, questa impostazione, una prospettiva influente sulla lettura della realtà: una direzione dello sguardo, suggerita da un principio ordinatore. Se si ritiene cruciale un terreno di conflitto, ciò non deriva da opzioni personali di gusto o di interesse, ma dal modo in cui si leggono processi e conflitti. E questo modo rimanda a sua volta a un quadro di riferimento, a una ipotesi teorica, a una cultura politica. Che diventa poi – anzi che è in se stessa – pratica politica: su questa base si costruiscono agende e programmi e si definiscono obiettivi di lungo periodo e identità; su questa base si cercano alleanze e si prende posizione anche sullo spartiacque che da oltre un secolo divide le due famiglie della sinistra in Europa, la socialdemocrazia dalla sinistra anticapitalista e rivoluzionaria.
Temi lontani? Inutili astrazioni? No, questioni all’ordine del giorno, come dimostrano le recenti dichiarazioni di Guglielmo Epifani riguardanti precisamente il conflitto capitale-lavoro. Conflitto che il segretario generale della Cgil non ritiene più inevitabile (men che meno costitutivo di questa forma sociale), visto che inclina a ritenere gli interessi del lavoro e dell’impresa non solo «conciliabili» ma addirittura identici. Epifani non ha detto queste cose in un convegno di studiosi, ma alla Conferenza organizzativa della Cgil. E si riferiva alla «riforma» del modello contrattuale in discussione tra le parti sociali. Prendeva posizione – mostrando di apprezzarla – sulla filosofia collaborativa della Cisl che il governo naturalmente sponsorizza.
Ora, ho l’impressione che sull’impostazione suggerita – se capisco – da Rossanda non vi sia accordo a sinistra. Anzi. Mi pare che non vi sia accordo nemmeno sulla possibilità di individuare un terreno cruciale di conflitto, quella che un tempo si chiamava «contraddizione principale». Da più parti (anche da una parte di Rifondazione comunista) ci si contrappone esplicitamente a questa idea, considerata «vecchia», residuale, novecentesca. Viziata da «lavorismo» (come se si potesse sostenere una lettura di classe abbandonando l’assunto della funzione sovraordinatrice del modo di produzione dominante). Del resto sappiamo bene che proprio intorno a questi temi si è sviluppata per decenni una discussione importante, che ha liberato nuovi saperi e nuove culture critiche. Ma che ha anche alimentato divergenze che sono parte – espressione e sostanza – della nostra stessa crisi.
Se questo è vero, il lavoro comune di cui Rossanda parla non può per definizione essere assunto e portato a compimento da un partito. Che è tale solo se opera una scelta, se si dà un quadro di riferimento: se decide – certo, ponderatamente e senza riduzionismi – di tagliare la complessità scegliendo una direzione prevalente di ricerca e di iniziativa. Sembra riconoscerlo anche Rossanda, che a più riprese sottolinea la necessità di «darsi tempo» al cospetto di un «lavoro immenso». Ma il tempo è proprio quello che scarseggia, visto che non possiamo concederci il lusso di farci assorbire dalla discussione sospendendo l’intervento politico, mentre il paese subisce l’attacco quotidiano di una destra determinata a chiudere la partita con quanto resta del movimento operaio e della Repubblica nata dalla Resistenza.
E allora? Allora forse non aiuta porre alternative secche, che rischiano di mancare i veri nodi in gioco. Vale la pena di prestare ascolto a un confronto congressuale che a guardar bene concerne – prima che forme e condizioni dell’unità a sinistra – proprio le diverse culture politiche che vivono dentro Rifondazione comunista: quindi, in primo luogo, il posto del lavoro nell’agenda e nel progetto politico. Sembra insomma che in questo caso sia più che mai opportuno osservare senza preconcetti. Non solo in considerazione delle responsabilità che oggi competono al Prc. Ma anche per la grande apertura che proprio la disfatta elettorale impone e consente alla sua discussione interna.