di Tommaso Di Francesco
su Il Manifesto del 30/05/2008
È un revisionismo storico attivo, spesso anche violento e che si avvale ora del sostegno del governo di destra. IMpegnato in uno scontro dalla doppia finalità: sulla memoria e sul presente. Un momento delicato e doloroso, non esente da note tragicomiche. Come giudicare diversamente infatti il ruolo del presidente del parlamento Gianfranco Fini che, nello stesso giorno, dichiara vergognose le affermazioni sulla razza del suo mentore nel Msi, Giorgio Almirante.
Affermazioni che più semplicemente definiremmo come fasciste.
Per affermare poi nella presentazione del libro degli interventi parlamentari di Almirante, che fu un «pacificatore» e un «padre della patria». Davvero un doppio Fini. Perché se era un fascista che difendeva la «dignità della razza» non può essere certo considerato fondatore delle nuove istituzioni italiane nate dalla Resistenza. Ma ecco che la menzogna torna utile subito, nel presente. Perché nella Roma conquistata dalla destra il sindaco Gianni Alemanno di formazione post-neofascista si avvia a dedicare una strada al «nostro» beniamino della patria Almirante. E insiste, nonostante il retro pensiero – dell’ultim’ora – della Comunità ebraica. La stessa ahimé che ha votato per Alemanno. E che ora sembra attivata in una specie di trattativa privata tra il responsabile della Comunità Pacifici e il sindaco «amico» Alemanno, se dare o no il consenso. Dimenticando, chissà perché, che Almirante non è solo il purificatore della razza, ma che nel 1944 come capo di gabinetto del ministro degli interni della Repubblica di Salò Mezzasoma, fu anche il fucilatore alla schiena di partigiani e di «sbandati» che non si consegnavano subito ai comandi militari e alla polizia, come recita un triste editto da lui firmato che il manifesto ha ripubblicato ieri. Lo stesso Almirante che più recentemente, nel febbraio del 1968, nel giorno del ferimento di Oreste Scalzone, organizzò l’ingresso all’università di squadracce di sottoproletari meridionali fatti venire in pullman a Roma, guidandole direttamente all’assalto, dalla facoltà di legge occupata dai fascisti, contro la facoltà di lettere occupata dai Collettivi studenteschi. Lì il «padre della patria» stava in prima fila, con un bastone in mano e un cappelletto alla Alpen. Chi se lo scorda mentre manda avanti i suoi manipoli armati di spraghe e sassi contro gli studenti.
Un presente che si avvale anche di un clima ammorbante dai miasmi assai diversamente graduati: dall’impunità diffusa alla giustizia fai da te, dalla xenofobia al razzismo dichiarato e praticato con violenza contro rom e immigrati, fino alle aggressioni squadriste di Forza nuova contro sedi e movimenti di sinistra. E qui, sui fatti dell’Università, il tentativo di risolvere tutto in «rissa» non è stato solo mediatico. Ha finito per influenzare la stessa magistratura che ha condannato, nello stesso modo, sia due dei fascisti aggressori che uno studente di sinistra aggredito. Vi ricordate gli opposti estremismi?
Del resto solo tre anni fa lo stesso Alemanno, allora ministro della Destra sociale, si candidò ad essere interlocutore privilegiato di Forza nuova che lo invitò all’Università Roma Tre per un ennesimo convegno. Era sugli Ogm, ma l’obiettivo vero era avere l’iniziativa nell’Università. Ci furono provocazioni e aggressioni agli studenti di sinistra. Proprio come per l’annunciato dibattito della scorsa settimana indetto dalla stessa organizzazione d’estrema destra sulle «Foibe» e le «bugie antifasciste» alla facoltà di lettere della Sapienza. Lo scontro è sulla memoria e sul presente. Guardate il tentativo di queste ore di far precipitare sul giudizio nei confronti dell’aggressione fascista all’Università di Roma, la vicenda del Pigneto da sempre più che ambigua. Etichettando come «di sinistra» un violento che ha dato il via con altri – di destra, pare ammettere anche lui – ad un raid giustizialista che violento e xenofobo resta. Né vale certo mostrare il tatuaggio di Che Guevara, visto che il Che, ridotto a icona, è anche amato dalla destra estrema. Anche al Pigneto, come in altre realtà, prevalgono divisione e il metodo della giustizia fai da te che poi è quella del più forte. Anticamera di xenofobia e razzismo e brodo di coltura del fascismo.
La sconfitta della sinistra almeno questo svela. Che Roma è una larga ferita senza lamento, con una moltitudine di microguerre civili territoriali nei quartieri. Dove la gente è periferizzata, passivizzata dalla vita in diretta tv, atomizzata, espropriata dal controllo del proprio destino oltre che del territorio. Dov’è caccia aperta al diverso e il debole non ha cittadinanza, e dove alligna la difesa di una identità – culturale? politica? – di «zona» che non esiste più, se mai è esistita davvero. Dove predomina una nuova malavita diffusa che fa della droga merce di scambio con il potere e con la polizia. E infine dove il lessico dominante, non solo tra i giovani, è quello «ribelle-ultrà» dei colors da stadio. Se continua così il pericolo non è un’improbabile marcia su Roma, ma una deriva da guerra balcanica. Eterodiretta dall’alto.