E’ la crisi di un capitalismo fragile. Rilanciare l’intervento pubblico

di Roberto Farneti

su Liberazione del 29/05/2008

Emiliano Brancaccio, docente di macroeconomia

«Bisogna interrompere questo circolo vizioso che pretende di risolvere le contraddizioni di un capitalismo fragile e frammentato, come è quello italiano buttando giù i salari. Il capitale non si riorganizza se ha sempre a disposizione un varco per potere scaricare sui lavoratori i propri problemi».
Emiliano Brancaccio, professore di macroeconomia all’Università del Sannio, ha le idee chiare su quali siano le cause profonde della crisi che attanaglia l’economia del nostro paese, impietosamente fotografata nel rapporto Istat relativo al 2007. Alcune cifre: tra il 2000 e il 2006 il reddito per abitante in Italia è crollato del 13% rispetto alla media europea. Il 50% delle famiglie è costretto a vivere con meno di 1900 euro al mese, il 14,6% arriva «con molta difficoltà alla fine del mese», informa l’Istat, mentre il 28,4% non riesce a far fronte a una spesa imprevista di circa 600 euro.

Dati deprimenti e che, tuttavia, non sorprendono uno studioso attento come Brancaccio, da tempo consapevole della natura dei mali che affliggono il nostro paese. Basti ricordare l’appello, sottoscritto assieme ad altri cento economisti italiani, in cui si indicava al governo Prodi una strada precisa da seguire. «Una soluzione di politica economica fondata – riassume Brancaccio – piuttosto che sull’abbattimento del debito pubblico, sulla stabilizzazione del debito pubblico, finalizzata a reperire risorse che dovevano essere impiegate per favorire i processi di centralizzazione dei capitali. Attraverso interventi dello Stato nelle filiere produttive, fino eventualmente agli assetti proprietari». Appello, tuttavia, caduto nel vuoto.

Una soluzione “veterocomunista”, direbbe qualcuno del Pd
Si chiama intervento pubblico in economia ed è praticato, sotto varie forme, in altri paesi capitalistici. Mi rendo conto che a sinistra siamo stati abituati a interagire con il Pd, vale a dire con il massimo apologeta delle politiche di liberalizzazione e di privatizzazione, ma non è questo che ci può impedire di vedere che altrove il discorso dell’assetto proprietario pubblico viene valutato in maniera diversa. Faccio però presente che questa proposta noi l’abbiamo avanzata in un preciso momento politico, con la sinistra al governo. Prodi e Padoa Schioppa hanno scelto un’altra strada e il risultato è stato quello che è stato: un disastro politico, economico ed elettorale. Adesso che non abbiamo nessuna fretta, visto che per parecchi anni governerà la destra, abbiamo almeno il dovere di essere critici su quello che non è stato. Insomma, che ognuno si assuma le proprie responsabilità.

Torniamo al rapporto Istat. Malgrado tutto, il presidente Biggeri esprime «prudente ottimismo» per il futuro. Condividi?
No. Purtroppo si tratta di dati che confermano una tendenza che si è consolidata nel corso di anni. Questo crollo dei redditi relativi degli italiani rispetto agli altri cittadini dei paesi Ue è un indice di crisi del capitalismo italiano. Che è un capitalismo fragile, frammentato, fatto di piccole e di piccolissime imprese, fatto di tantissimi intermediari lungo la catena del processo produttivo. Tutte queste inefficienze generano una bassissima produttività del lavoro. Nel rapporto Istat c’è scritto che in sei anni la produttività di ogni singolo lavoratore in Italia è cresciuta di appena il 4,7% a fronte di un incremento che nella media Ue è stato del 18%.

Secondo il rapporto, le cause dell’attuale crisi di produttività vanno ricercate «nel concorso di vari elementi, quale l’uso più intenso del fattore lavoro (legato anche alla diffusione di forme di lavoro più flessibili) e dalla prevalenza di comportamenti di imprese volte a perseguire obiettivi di redditività piuttosto che di produttività». Condividi?
Senz’altro. Come dicevo, il problema strutturale dell’Italia è la scarsa centralizzazione dei capitali. L’Istat conferma che la dimensione media delle imprese italiane, poco meno di quattro addetti, è ancora la più bassa d’Europa. Pretendere di risolvere il problema della bassa competitività attraverso la flessibilità del lavoro non soltanto non migliora la situazione ma tende a peggiorarla. Abbiamo dati empirici che ci mostrano come, laddove si precarizza il lavoro, la produttività può più facilmente diminuire che aumentare.

Però aumenta la redditività…
Il profitto per unità di lavoro naturalmente cresce, ma per un motivo molto semplice: perché laddove si precarizza il lavoro, la produttività forse non cresce ma di sicuro si indebolisce il potere contrattuale dei lavoratori. E quindi il salario “pro capite” del lavoratore tende a comprimersi. Aggiungo un’altra cosa, spesso poco sottolineata: questo è un paese nel quale si lavora tantissimo. Nelle imprese al di sopra dei nove dipendenti, le uniche su cui si può fare una comparazione internazionale, noi lavoriamo in media nel settore privato mille e 700 ore all’anno. La media europea è di appena mille e 600 ore all’anno, in Francia di mille e 500 euro e nella famosa Danimarca, di cui tanto si parla, di mille e 400 ore all’anno. In sostanza cosa si è cercato di fare e cosa sta cercando di fare anche questo governo, tramite la detassazione degli straordinari? Si cerca di spremere di più i lavoratori senza porci il problema di quella che è la capacità produttiva di ogni singola ora lavorata. Io lo definisco un capitalismo da “bestie da soma”. Senza peraltro che questo produca una crescita economica, anzi il divario con gli altri paesi aumenta.

Questa politica di abbattimento dei salari si sta però rivelando un boomerang. Non a caso l’Istat dice che bisogna rilanciare i consumi.
Il problema è globale: ormai ogni singolo capitalismo nazionale cerca di vendere le proprie merci all’estero, perché l’obiettivo interno è quello di tenere basso il costo del lavoro e la spesa pubblica. La timida ripresa in atto delle esportazioni, a mio avviso momentanea, non può nascondere che questa strada, che in generale è fallimentare, lo è in particolar modo per l’Italia.

Anche Confindustria parla di sostegno alla domanda interna.
Sì, ma sono chiacchiere. La realtà è che va trovato il modo per tornare a praticare il conflitto sui luoghi di lavoro per opporre una sorta di “pavimento” allo schiacciamento dei salari e della spesa pubblica.

Mi pare di capire che chiami in causa il sindacato italiano. A proposito: sta prendendo piede l’idea che le retribuzioni potrebbero crescere meglio dando più spazio alla contrattazione aziendale…
Se si sposta la contrattazione dal livello nazionale ulteriormente verso il secondo livello noi abbiamo evidenze storiche e internazionali che ci dicono che la massa salariale si ridurrà ulteriormente. Non è certo questa la strada.