Lettera di un gruppo di intellettuali sulla “crisi italiana”
A partire dagli anni Novanta, Gramsci in Italia è stato forse studiato, quando non rimosso, ma non valorizzato per l’utilità politica che il suo metodo di pensiero, le sue domande e le sue categorie di analisi ancora rivestono. Come si forma un nuovo senso comune? Come reagire allo straordinario processo di passivizzazione che attraversa le società occidentali? Come ripensare il nesso egemonia-democrazia? Come si costruisce il movimento storico sulla base della struttura? Quali sono i termini, oggi, di una riforma intellettuale e morale? Il deficit di cultura gramsciana nel dibattito politico odierno consiste soprattutto nell’aver smesso di porsi tali domande. Non ovunque è così. Ad esempio in America latina queste sono domande ben presenti e vive nel dibattito politico.
Dal chiuso del carcere, Gramsci si dichiarava fautore di un “fronte unito” e di una “Costituente” per abbattere il regime reazionario di massa; tali indicazioni non sono in contraddizione con il suo comunismo, né con la sua idea della necessità di una concezione del mondo delle classi subalterne autonoma sotto il profilo teorico e politico.
La concezione gramsciana del partito e della politica vuol essere promotrice della democrazia dei produttori e intrattenere con essa un rapporto di osmosi: ripartire dal mondo, dai luoghi, dai bisogni del lavoro, dalla conoscenza anche dei radicali processi di trasformazione, in primo luogo di precarizzazione, è una condizione non sufficiente (vista la necessità, fin dai tempi di Gramsci, e tanto più oggi, di una larga politica di alleanze), ma sicuramente necessaria. In Gramsci il rapporto cruciale è tra partito e classe, ma per noi è parimenti fondamentale una grande attenzione a tutti i movimenti, rispetto a cui il partito deve essere in un rapporto di internità critica, pur nella consapevolezza delle differenze: la discussione sul tema resta aperta.
Con Gramsci, riteniamo fondamentale la nozione di “subalterni”, in quanto più ampia rispetto a quella tradizionale di “proletariato” e radicalmente diversa da ogni idea di spontaneismo immediatamente antagonistico. Con “subalterni” e “gruppi sociali subalterni” (oltre che con “classi subalterne”) non solo si fa riferimento a tutti coloro che subiscono la concezione del mondo egemone (quella capitalistica) e quindi sono potenzialmente interessati alla lotta per una nuova egemonia; ma si vuole sostenere che la condizione di oppressione riguarda aspetti molteplici e diversi della vita, assolutamente non riducibili a un’ottica economicistica, tipica del marxismo tradizionale e ortodosso, che Gramsci combatté non meno delle posizioni idealistiche e ipersoggetivistiche.
Da Gramsci è derivata, con propri sviluppi significativi, nonostante limiti ed errori da superare, una tradizione comunista originalmente italiana, fondata sulla necessità di coniugare socialismo e democrazia, che è stata punto di riferimento internazionale in quanto alternativa al modello sovietico. Anche per questo in Italia ci è ancora possibile mantenere vivo il riferimento al comunismo, ai suoi valori, alla sua cultura, pur essendo consapevoli della profonde trasformazioni che hanno cambiato il volto della società. Del resto non crediamo sia possibile trovare in Gramsci la risposta a tutte le questioni del presente o ereditate dal passato come la crisi ambientale, né alle contraddizioni messe in luce dal movimento delle donne, dal pensiero della differenza di genere, dalla critica al patriarcato: la necessità di riflessione e di elaborazione qui è tutta sulle nostre spalle.
Riteniamo che il pensiero di Gramsci possa anche aiutarci a capire le ragioni dell’odierna sconfitta e, insieme, la complessità contraddittoria dell’odierna “rivoluzione passiva” globale. È necessario un impegnato sforzo analitico per cogliere le novità dell'”egemonia”, che è ora anche massmediatica e connessa alla pseudo-democrazia plebiscitaria, intenta a svuotare la lotta egemonica; è necessario analizzare le diversificazioni sociali, politiche e culturali tra Occidente e Oriente, tra Nord e Sud, tra centro e periferie del mondo o, ancora, nel cuore del nostro “Nord”, l’afflusso di nuovi schiavi migranti senza diritti e senza alcuna protezione da parte della sfera pubblica.
L’analisi gramsciana del fordismo e dell’americanismo era anche un’acuta confutazione delle teorie del “crollo” più o meno imminente. Essa è per noi una lezione di metodo. Ma oggi siamo oltre il fordismo; e l’americanismo assume altri aspetti non prevedibili nei Quaderni . Perciò è necessario che le nostre analisi muovano dalle nuove forme della produzione nell’epoca delle tecniche informatiche, della frammentazione del lavoro nel contesto della compiuta mondializzazione dell’economia, dell’esportazione dei capitali, dell’emigrazione per miseria di masse ignobilmente richiamatate in Europa per essere sfruttate e, insieme, per essere oggetto di diversione xenofoba o persino razzista in lavoratori metropolitani non più in lotta, perciò, contro il padronato. Tutto ciò è nei fatti, fermo restando che il capitalismo non ha superato la sua crisi (o depressione) attuale, che non è episodica, ma – per usare un’espressione gramsciana – “organica”.
In una situazione nella quale – come scriveva Gramsci – «il vecchio muore e il nuovo non può nascere» abbiamo bisogno di una riflessione critica sul passato e sul presente, di un ripensamento delle forme politico-organizzative, di ritrovare l’indispensabile legame con i subalterni, di un riattraversamento della tradizione comunista che ne consenta davvero l’innovazione.
Giorgio Baratta, Università “L’Orientale” di Napoli
Alberto Burgio, Università di Bologna
Lea Durante, Università di Bari
Alessandro Errico, musicista
Eleonora Forenza, Università di Bari
Fabio Frosini, Università di Urbino
Elisabetta Gallo, insegnante
Dino Greco, sindacalista
Domenico Jervolino, Università “Federico II” di Napoli
Lelio La Porta, insegnante
Guido Liguori, Università di Calabria
Chiara Meta, Università della Calabria
Raul Mordenti, Università di Roma Tor Vergata
Giuseppe Prestipino, Università di Siena
Pasquale Voza, Università di Bari