di Luigi Cavallaro
su Il Manifesto del 17/05/2008
“Proiettando sui «nemici» esterni le cause dell’impasse europea, Giulio Tremonti nel suo libro «La paura e la speranza» interroga implicitamente anche la sinistra sulla sua capacità di trasformare le differenze in elementi di complessità interna alla struttura sociale I timori di cui parla Tremonti nel suo pamphlet sono quelli che hanno in larga parte determinato gli esiti delle elezioni di aprile e derivano da politiche economiche sbagliate, che hanno eretto……..”
Dell’ultimo libro di Giulio Tremonti si è parlato molto, specie da quando la vittoria del Popolo della libertà alle elezioni del 13 e 14 aprile ne ha fatto uno strumento non solo per «interpretare il mondo» ma, per continuare nella metafora, potenzialmente anche per «trasformarlo». È un libro – va detto subito – che vale la pena leggere, e con attenzione. Nel diluvio di pamphlettistica d’infima qualità, dedita pressoché esclusivamente a puntare l’indice indignato sui privilegi e le malefatte delle varie «caste», La paura e la speranza (Mondadori, pp. 112, euro 16) recupera la vocazione originaria del pamphlet come luogo in cui il chierico distilla il proprio sapere e ne fa strumento di «battaglia intellettuale e morale» per il popolo cui è organico.
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Così infatti procede Tremonti: con stile conciso, icastico, fatto di proposizioni brevi che si succedono rapide come aforismi. Né è casuale che, ciononostante, esse riescano a descrivere nitidamente il «mondo grande e terribile» che abbiamo davanti, proprio come un lampo che squarcia l’oscurità della notte: al contrario, è una conseguenza del fatto che, per Tremonti, la realtà ha una «durezza» (vorremmo dire: un’oggettività) che non si piega alle interessate «interpretazioni» di chi è al governo o all’opposizione. «La meteorologia non fa il tempo, non decide quando splende il sole o quando piove, ma aiuta a navigare. I marinai sanno che non si governa il mare ma la nave, che si manovrano le vele e non il vento», scrive il ministro dell’Economia: e in questa affermazione si coglie lo scarto che separa la concezione del mondo racchiusa in questo libretto da quella vagamente new age che ha ispirato (e ispira) l’intellettualità «liquida» post-sessantottina, nella sua variante modernizzatrice propria degli «integrati» come in quella millenaristica degli «antagonisti».
Un «marxista di destra», come ha suggerito qualcuno? Andiamoci piano. Tremonti esordisce irridendo la «favola della globalizzazione» raccontataci in questi decenni. L’idea cioè secondo cui, godendo del denaro reso disponibile su scala illimitata e pressoché gratuita dalla «tecno-finanza», avremmo potuto disporre di un paradiso fatto di negozi pieni di merci a basso costo prodotte in Asia. Di un ambiente naturale finalmente salubre, grazie alla delocalizzazione delle produzioni inquinanti. Di immigrati pronti a fare al nostro posto i lavori più umili, e di occupazioni non più alienanti perché perennemente cangianti. Il tutto mentre le nostre tradizioni civili si «ibridavano» miracolosamente con quelle dei migranti accolti a braccia aperte e la «pace perpetua» auspicata da Kant celebrava i suoi trionfi all over the world.
Il fallimento degli alchimisti
Questa idea, dice Tremonti, è andata in frantumi. L’Europa ci si presenta piuttosto «simile all’Angelus Novus di Klee, con la testa rivolta all’indietro, mentre il vento del progresso la trascina oltre»: una società «segnata dallo straniamento, dalla solitudine nella moltitudine, dal “nichilismo”, da esplosioni irrazionali di violenza individuale e collettiva, dai delitti “inspiegabili”, dalla diffusione su scala di massa della droga, dallo squadrismo calcistico, dal principio di tanti piccoli pogrom». E sotto la pressione della crisi incipiente – una crisi, ricorda Tremonti, non solo alimentare ed economica, ma geopolitica e anche ambientale – stanno dichiarando fallimento tutti gli «alchimisti» che, appena dieci anni fa, di quella favola avevano forgiato il mantra: «i liberali drogati dal successo appena ottenuto nella lotta contro il comunismo; i post-comunisti divenuti liberisti per salvarsi; i banchieri travestiti da statisti; gli speculatori-benefattori; e i più capaci pensatori di questo tempo, gli economisti, sacerdoti e profeti del nuovo credo».
Se davvero siamo alle soglie di una «tempesta perfetta», cioè di una crisi in cui potrebbero combinarsi le varie crisi «locali», le «forme nuove dell’imperialismo energetico che ispira i paesi produttori ed esportatori di petrolio e di gas» e la «crisi finanziaria in atto», Tremonti non dice: gli basta farne balenare la possibilità, perché il suo obiettivo è piuttosto di evidenziare quanto l’Europa sia disarmata di fronte a un’eventualità del genere. L’Europa, infatti, non ha una «vera politica estera», non ha una «vera politica industriale», non ha una «vera politica commerciale», non ha una «vera politica energetica», non ha una «vera politica sociale», non ha infine una «vera politica culturale». «Vera», cioè comune. E così, mentre da un lato Bruxelles estremizza le regole di mercato, vietando ad esempio ogni forma di sussidio pubblico all’industria, dall’altro chiude gli occhi di fronte allo «State capitalism» dei fondi sovrani cinesi o russi; da un lato preme per la liberalizzazione della produzione energetica interna, dall’altro si disinteressa che tutt’intorno crescano colossi statali come la Gazprom; da un lato auspica la mobilità del lavoro e nel lavoro, dall’altro impedisce di fatto che si ponga rimedio agli «effetti destrutturanti e destabilizzanti prodotti sulle nostre famiglie e sulle nostre società dal lavoro di tipo instabile».
È uno scatto della politica che Tremonti invoca per reagire allo status quo. Tanto più che, già ora, in un settore vitale del mercato come quello finanziario, la «mano invisibile» di Adam Smith è stata «sostituita dalla ben più visibile mano pubblica»: la nazionalizzazione della banca inglese Northern Rock e l’acquisto manu militari dell’americana Bear Stearns da parte della J.P. Morgan Chase sono lì a comprovarlo. Occorre dunque una «filosofia politica» diversa, scrive Tremonti, «che ci sposti dal primato dell’economia al primato della politica»: sta qui la soluzione della crisi europea.
Faremmo fatica a immaginare non solo un marxista-leninista d’antan, ma persino uno dei tanti «sinistrati dell’arcobaleno» che dissentisse da quanto raccontato fin qui. Ma Tremonti, pur non disdegnando di leggere Marx (al quale dedica più d’una citazione adesiva), non è ovviamente un marxista, e il lampo della concezione materialistica della realtà, di cui pure si giova il nitore di certe sue descrizioni, sembra accecarlo più di quanto non lo illumini. Non solo e non tanto perché egli continua a rappresentare la dialettica fra capitalismo e pubblici poteri in termini di contrapposizione fra «economia» e «politica», invece che di conflitto fra modi di produzione differenti: si tratta di un’illusione ottica corrente anche fra molti marxisti. Ma soprattutto perché, invece di imputare l’impasse europea ai conflitti interstatali generati dalla pretesa neomercantilista del core franco-tedesco di «sfondare» nelle periferie dell’Unione, Tremonti ne proietta le cause all’esterno dell’Europa. Di conseguenza, il suo appello a una politica «più comunitaria» non può che poggiare sull’idea secondo cui la nostra «comunità europea» avrebbe in sé i valori, le radici («giudaico-cristiane», naturalmente), in una parola «l’ethos» su cui fondare la propria rinascita, se non fosse per quegli stranieri – merci, capitali, persone, stati – che ci stanno invadendo.
Si comprenderà a questo punto non solo perché Tremonti sia considerato il garante dell’alleanza tra la Lega e il Popolo delle libertà, ma anche il successo che il suo libretto ha incontrato presso l’establishment politico di Alleanza nazionale: Gianni Alemanno, suo acerrimo avversario nella passata esperienza di governo, ha detto di condividerlo «dalla prima all’ultima parola». Ma detto ciò, sarebbe oltremodo sbagliato se l’intellettualità di sinistra liquidasse il ragionamento di Tremonti con un’alzata di spalle. Le «paure» di cui egli scrive nel suo libretto sono infatti le stesse che hanno condotto gli operai del Nord a votare Lega e quest’ultima a sfondare persino nella «Emilia rossa» d’un tempo. Sono le paure generate da politiche economiche sbagliate, che hanno eretto a feticcio il «risanamento finanziario» disinteressandosi delle sue conseguenze sull’economia reale. Paure indotte da una immigrazione regolare e clandestina certo modesta, ma comunque sufficiente ad accelerare il trend discendente dei salari e, per colmo d’ironia, spacciata addirittura come «necessaria». Da politiche «sicuritarie» a parole, ma in realtà incapaci di fronteggiare la crescita di «zone franche» ai margini delle nostre città e non di rado anche al loro interno.
Differenze e complessità
Si potrebbe dire, piuttosto, che il libro di Tremonti interroga la sinistra sulla sua idea di «comunità». Si potrà dissentire dai suoi toni liquidatori verso «la democrazia del ’68», ma ci sono pochi dubbi sul fatto che di quella stagione sono sopravvissute, erette a sistema, soltanto le spinte anarcoidi, le stesse che hanno suonato la campana a morto per il movimento comunista novecentesco: da allora, in effetti, non abbiamo udito da sinistra che l’elogio della diversità, della moltitudine, dell’irriducibilità dei percorsi individuali. Sennonché, vien fatto di chiedersi, la mera giustapposizione di «differenze» può produrre comunità? O non è forse vero che una comunità può svilupparsi solo nella misura in cui riesce a suscitare una qualche uniformità nella «concezione del mondo» che ispira i comportamenti dei suoi membri, e dunque a trasformare le «differenze» in elementi di complessità interna alla struttura sociale? E un processo del genere non chiama forse in causa «la politica e il potere», per usare due parole care a Tremonti?
Ma non è tutto. Accanto a «comunità», c’è un’altra parola chiave nel suo libro, ed è «debito». Più volte egli insiste sull’opportunità di un’emissione di «Euro-bond», che permetta finalmente di disporre delle risorse necessarie per gli investimenti nei settori ritenuti strategici per lo sviluppo, e più volte sottolinea che un debito pubblico europeo non sarebbe un mero espediente finanziario, ma anzitutto «uno strumento politico».
Può sembrare una boutade attribuire al debito pubblico un significato politico, in questa epoca che un redivivo Keynes avrebbe detto asservita all’«incubo del contabile». Ma l’esperienza storica, meglio e più della Teoria generale dell’occupazione, ha chiarito quanto siano strettamente connessi «debito» e «comunità». Communitas, del resto, viene da munus, che significa (anche) «dovere», onde potrebbe suggerirsi che una «comunità» sia costituita da un insieme di persone che condividono un «dovere» – un «debito», appunto.
Lotta senza scorciatoie
E l’odierna fobia per i conti pubblici in rosso, che ha trovato spazio perfino su questo giornale (nonostante non esistano argomenti scientifici che possano dimostrare l’«insostenibilità» di un qualunque livello del debito), potrebbe essere considerata come un’ulteriore spia dell’assenza a sinistra di una qualunque idea di «comunità». Un po’ come accadeva nella Francia prerivoluzionaria, in cui l’elevato ammontare del debito veniva utilizzato per gettar discredito sulla corte parigina, mentre nello stesso periodo comunità più coese come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti consideravano il proprio debito pubblico come segno di un patto sociale indissolubile.
Intendiamoci: alcune delle speranze di Tremonti ci fanno davvero paura. Ma bisognerà pur misurarsi con le paure sue e del suo popolo (che fu il nostro), perché la lotta per l’egemonia non conosce scorciatoie. Né televisive, né elettorali, né di piazza.