Apprendista 20enne si dà fuoco. Come suo padre undici anni fa

In fin di vita Riccardo La Mantia. Il gesto dopo una lite col padrone dell’officina che l’aveva licenziato

Maurizio Pagliassotti
Torino

I rapporti tra Riccardo ed il suo datore di lavoro, Beppe Palazzo, sono burrascosi, fioccano le lettere di richiamo. Poi la tragedia di ieri mattina. Dopo l’ennesimo diverbio il ragazzo esce dall’officina sale sulla sua auto e manda un sms ad una collega: «Guardate nelle telecamere cosa faccio adesso…». I dipendenti presenti alzano lo sguardo e vedono il giovane cospargersi di benzina e darsi fuoco. Il ragazzo, come spesso capita nei casi di ustioni gravi, non perde conoscenza ed esce dall’auto. Viene immediatamente soccorso da alcuni colleghi che spengono le fiamme con delle coperte, rimanendo anche lievemente feriti alle mani. Le condizioni di Riccardo, ricoverato presso il reparto grandi ustionati del Cto, sono disperate. Le ustioni di secondo e terzo grado coprono il 90% del corpo. Sono le stesse dei sette morti ThyssenKrupp. I medici che lo hanno in cura fanno capire che sarà difficile trovare parti integre di pelle da coltivare e poi innestare sul corpo carbonizzato.

Beppe Palazzo è un signore di sessantatrè anni che da quaranta lavora nell’officina che creò il padre negli anni 50. Ieri pomeriggio era solo, i dipendenti per ovvie ragioni erano andati casa. Questa la sua versione dei fatti: «Non sono un mostro che sfrutta i lavoratori e poi li licenzia, non sono un negriero. Riccardo non è un ragazzo facile. L’ho assunto due anni fa con un contratto da apprendista ma il rapporto di lavoro si è rilevato subito difficile. Era sempre distratto e con il suo modo di fare disturbava i colleghi, soprattutto le donne». Il signor Palazzo racconta inoltre di un paio di operaie «assillate» dal giovane e che si sarebbero lamentate più volte. Mostra anche due lettere di richiamo: nella prima (non firmata dal ragazzo), della fine di aprile, il responsabile della ditta annuncia che il contratto di apprendistato non verrà rinnovato e allega anche una serie di espliciti files fotografici che testimonierebbero l’utilizzo improprio del computer aziendale durante l’orario di lavoro. Ieri la seconda lettera di richiamo (firmata per accettazione da La Mantia), sempre per i soliti motivi, in cui viene richiesto al ragazzo di rassegnar il più velocemente possibile le dimissioni.

Raggiunta in ospedale la madre del giovane, Maria Cultrona, smentisce con forza la versione fornita dal titolare: «Mio figlio era un bravo ragazzo, il suo difetto inaccettabile forse era quello di essere troppo allegro ed esuberante. Forse di questi tempi non si può più essere allegri sul posto di lavoro». La donna, disperata per le condizioni del figlio, non accetta che di Riccardo si parli come di un fannullone, dice infatti con tono fermo e gentile: «Palazzo sostiene che non aveva voglia di lavorare? E allora perché tutte quelle ore di straordinario in busta. Quasi tutte le sere doveva fermarsi in azienda, nonostante fosse solo un apprendista. Mio figlio raccontava di un ambiente aziendale invivibile e di un capo con cui proprio non riusciva ada andare d’accordo…». Gli amici del giovane, infuriati dalla presenza di giornalisti e curiosi, confermano che Riccardo era un ragazzo come tanti, ma che più di molti era riuscito a reagire alle dure prove che la vita gli aveva riservato.

Il padre, Giovanni La Mantia, si suicidò dandosi fuoco nel 1997 nell’ufficio del sindaco di Caltagirone. Le ragioni del gesto sono le stesse del figlio: il lavoro che viene a mancare. Disperata, la vedova minacciò anch’essa un gesto estremo visto che non riusciva a trovare un impiego per crescere i figli in maniera dignitosa. Venne assunta a Torino da una azienda telefonica. Ora aspetta di sapere dai medici quante possibilità di salvezza ha Riccardo.