di Frida Nacinovich
La nascita del Pci, la sua morte, il presente. Il mare e la neve, Livorno a gennaio. Agenti di polizia che fermano l’automobile perché è lunga e vecchia. “Sa com’è, una Mercedes così dà nell’occhio”. Non ci sono malintenzionati a bordo, c’è il segretario di un partito comunista, molto più piccolo di quello che fu. Rifondazione comunista. Scena di segno opposto, poco dopo, in pizzeria. C’è grande lavoro, dai forni escono teglie di torta di ceci una dopo l’altra, schiacciate, pizza. I clienti sono in fila, aspettano il loro turno, contenti se ne vanno con il “cinque e cinquanta” (“non chiamatela schiacciatina con la cecina, così la chiamano i pisani”), con il quarto di pizza e visto che è sabato anche un quartino di vino. Con questo freddo non fa male. Il comunista Paolo Ferrero viene riconosciuto, una stretta di mano, un in bocca al lupo e oggi offre la pizzeria. Si pagherà la prossima volta, che tanto arriverà. Novant’anni fa in questa città che odora di salmastro nasceva il partito comunista italiano, ora non esiste più ma ha lasciato il segno. Un’idea, una visione delle cose, la richiesta di giustizia sociale. Il centro artistico il “grattacielo”, un teatro nel cuore della città, è pieno di bandiere rosse. Qui ci sono donne e uomini che non ci stanno a far riscrivere la storia da Silvio Berlusconi et similia. Il Cavaliere chiama comunisti i giudici che lo vogliono processare, chiama comunisti Massimo D’Alema e Walter Veltroni, chiama comunisti tutti quelli che non la pensano esattamente come lui. Anche a Barck Obama danno del comunista, sono quelli del tea party. “You are a comunist”. Non è vero. “La dissoluzione del partito comunista italiano ha fatto venir meno un linguaggio”, osserva il professor Umberto Corpi, che ci tiene a ricordare la sua tessera del Pci del 1956. “Oggi ci accusano di essere conservatori, i riformisti sarebbero quelli che vogliono far pagare il costo della crisi ai lavoratori. Un mondo stravolto”. Un mondo capovolto. Dalla crisi del capitalismo alle le ragioni del comunismo. “Perché la memoria – speiga ancora Carpi – deve essere un ottimo documento per la storia, altrimenti tutto può essere riscritto”. L’economista Vladimiro Giacché è abile nello spiegare le ragioni di una crisi, che “non può essere affrontata con il liberismo debole del Pd, e neppure con la decrescita felice. Perché lo sviluppo non va di pari passo con l’equità. Anzi, succede il contrario. L’indice che misura le diseguaglianze è alto, altissimo”. Di qui un’antica ricetta mai smentita dai fatti, come dimostrano anche gli aiuti tedeschi e francesi ai rispettivi settori automobilistici. “Rilancio del ruolo dello stato in economia. Non esiste una ricerca empirica che dimostri che un’azienda privata funzioni meglio di una pubblica”. La sala del teatro si riempie di attenti ascoltatori, nonostante i disagi del maltempo e un’orario – le 10 del mattino di sabato – molto comunista e molto poco comodo. Paolo Ferrero racconta in modo logico, passo dopo passo, “la crisi del capitale, che non è congiunturale ma strutturale. La stagnazione economica, che si accompagna alla difficoltà di reperire le materie prime. E la scarsezza delle risorse porta con sé una tendenza alla guerra”. Il segretario di Rifondazione comunsita non è ottimista, anzi: “Non c’è nessuna ragione per cui nei prossimi dieci anni l’Italia possa uscire dalla crisi in cui è oggi”. E c’è un perché: “L’offensiva di Berlusconi e di Marchionne vanno di pari passo. Il primo conquista voti con un’informazione manipolata e forte del consenso si sente in diritto di zittire i magistrati, pagare minorenni, fare quel che vuole. Un sovrano senza vincoli esterni. Il secondo pensa che il padrone di una fabbrica abbia il diritto di imporre con la forza del ricatto occupazionale le proprie regole. O ti fai toglere diritti o perdi il posto di lavoro imporre con la forza del ricatto fatto che quei lavoratori bisogno di lavoro tu li possa ricattare e togliere diritti.