di Alberto Burgio
Martedì scorso sulla Repubblica Roberto Saviano ha recensito con toni entusiastici un libro sulle «due sinistre»: quella rivoluzionaria, brutta, sporca e cattiva, impersonata da Antonio Gramsci, e quella riformista, buona e gentile, rappresentata da Filippo Turati. Il libro, opera di Alessandro Orsini, giovane sociologo politico, sembra a Saviano niente meno che «la più bella riflessione teorica sulla sinistra fatta negli ultimi anni»…
La tesi del libro è semplice e niente affatto inedita. Da una parte c’è la sinistra riformista, realistica, sinceramente preoccupata delle sorti dei subalterni, quindi capace di valorizzare le piccole conquiste giorno per giorno (in una prospettiva che qualche tempo fa si sarebbe definita «migliorista»); dall’altra, la sinistra rivoluzionaria, violenta e pretenziosa, accecata dall’ideologia e intollerante delle altrui posizioni (la sinistra, per intenderci, dei faziosi e dei «fondamentalisti»).
Inutile dire che questa seconda sinistra – abituata ad aggredire gli avversari a suon di insulti e pugni in faccia, quindi un po’ fascista – è per Saviano la sinistra comunista, erede, scrive, della «pedagogia dell’intolleranza edificata per un secolo dal Partito Comunista»; mentre l’altra – riformista – è la sinistra socialista. Come nelle fiabe della nonna, insomma, tutti i buoni da una parte, tutti i cattivi dall’altra: un bel quadretto manicheo che la dice lunga sulla raffinatezza del personaggio e la complessità della sua visione.
Ma qual è il punto? Saviano, mascotte della fazione progressista, si arrabatta come può nell’argomentare, a suon di esempi ad hoc e citazioni estrapolate, una tesi inconfutabile perché arbitraria. Gli si potrebbe ricordare, se ne valesse la pena, che Benito Mussolini – non propriamente un campione di mitezza e tolleranza, come proprio Gramsci gli potrebbe ricordare – venne fuori dalle file socialiste, che del socialismo italiano sono purtroppo eredi i più facinorosi colonnelli berlusconiani e che senza i comunisti questo Paese non avrebbe avuto né la Resistenza né quella Costituzione antifascista che Saviano giura di venerare. Ma ne vale la pena?
No. E nemmeno merita tempo indugiare su altre stranezze di questo articolo: il suo argomentare a favore della mitezza ricorrendo a caricature e a mistificazioni; il suo perorare la causa delle buone eresie accodandosi ai più vieti luoghi comuni; il suo ridurre una vicenda complessa e contrastata a uno povero schemino di cui anche uno studentello svogliato si vergognerebbe. Meglio lasciar perdere, e limitarsi a constatare, desolati, a che cosa ci si può ridurre quando si è mossi dalla preoccupazione di piacere e di seguire l’onda. A Saviano diamo solo un suggerimento: legga quanto Gramsci scrive sul servilismo degli intellettuali. E stia tranquillo, non dovrà leggere tutti i Quaderni (il tempo, si sa, è denaro): nell’edizione c’è un ottimo indice analitico.