Il dibattito sul potenziamento di Camp Darby si è concentrato, fino ad oggi, su due principali ordini di considerazioni. Il primo relativo al pericolo connesso al trasporto ed allo stoccaggio di armi, il secondo connesso al danno ambientale conseguente la realizzazione delle nuove infrastrutture, per le quali si è stato appena aggiudicato il bando. Come giustamente veniva ricordato da Fabrizio Coticchia sulle colonne de “Il Tirreno”, è fondamentale prendere in analisi l’aspetto strategico, e di conseguenza la ragione politica, dietro questa operazione; anche se facendo ciò si può arrivare a posizioni anche lontane da quelle espresse nella sua intervista. Il principale ambito di relazioni da tener presente è sicuramente quello della NATO, di cui l’Italia è membro fondatore (e non per suo merito, tra l’altro). Per prima cosa, la NATO rappresenta in realtà solo la struttura militare integrata di quello che viene chiamato “Patto Atlantico” che è sostanzialmente un accordo politico di mutua difesa e una dichiarazione d’intenti e comune volontà. Tanto che la Francia gollista, pur non denunciando mai il trattato, sottrasse ad esempio le proprie forze armate dalla struttura militare integrata dell’Alleanza fin dall’inizio della V Repubblica. Questa distinzione è importante perché consente di affrontare la questione senza dover ricorrere a pretestuosità ideologiche o di antiamericanismo preconcetto. Indubbiamente, finché è esistito nella percezione dell’Europa Occidentale il timore di aggressione da parte del Patto di Varsavia. questo faceva sì che gli interessi nazionali dei singoli membri coincidessero, in tutto o in parte, con quelli degli Stati Uniti, nella misura in cui gli americani avevano interesse ad un’Europa non comunista. Come è possibile dimostrare questa aderenza d’interessi? Senza dover analizzare una ad una le dottrine d’impiego della forza che si sono susseguite a partire dall’inizio degli anni ’50, il meccanismo d’ingaggio delle forze NATO non è sostanzialmente mutato nel corso dei decenni della guerra fredda. Questo meccanismo consisteva in una massiccia concentrazione di truppe a difesa della cortina di ferro, e nell’ombrello nucleare americano. Affinché la garanzia di quest’ultimo fosse percepita come reale dagli alleati, diverse decine di migliaia di soldati americani stazionavano nei paesi membri, più come ostaggi che come reali difensori in caso di invasione. L’Europa Occidentale non poteva infatti garantire la profondità strategica sulla quale l’Unione Sovietica poteva fare affidamento, di conseguenza l’unica assicurazione contro un intervento con armi convenzionali del Patto di Varsavia era rappresentata dall’impiego dell’arsenale nucleare americano, da qui la necessità brutale di averne il certo impiego con morti americani sul terreno in caso di conflitto. Gli stessi modelli di difesa dei paesi alleati rispondevano a questo tipo di minaccia. Nel caso italiano, più di 1/3 dell’esercito era schierato a nord est e organizzato in divisioni e brigate corazzate, mentre aeronautica e marina erano considerate relativamente marginali in quel contesto – nonostante l’estensione latitudinale del nostro paese e la sua centralità nel Mediterraneo. Era stata infatti la Francia a volere fortemente l’Italia nell’Alleanza Atlantica. La Francia, avendo una sponda mediterranea e cercando un contrappeso politico, si fece il nostro miglior sponsor, non facendo mutare per questo lo scacchiere principale di confronto. Questi elementi fanno subito emergere come solo una parte dell’interesse nazionale italiano fosse in prima battuta corrispondente a quello americano o della NATO. Certamente, il contesto bipolare della seconda metà del XX secolo aveva modificato molti fattori nella stessa definizione politica di interesse nazionale, almeno nel nostro paese.
Le cose sono radicalmente mutate con la fine della guerra fredda e l’implosione dell’Unione Sovietica. Mentre il Patto di Varsavia si è sciolto, la NATO non ha fatto altrettanto. Qual è allora la convergenza di interessi nazionali che accomuna i membri dell’Alleanza? Sostanzialmente si tratta di un singolo interesse, che non ha fatto altro che riproporsi, ossia quello della Germania. Se l’Unione Europea era agli occhi di americani ed inglesi il contenitore della potenza economica tedesca (o il contesto della propria velleità egemonica continentale, per quanto riguarda i francesi), la NATO doveva esserne la garanzia militare. Così come la Germania, nuovamente unita, ha portato al trattato di Maastricht del 1992, così ha determinato la persistenza dell’Alleanza Atlantica. Ricordate la battuta di Andreotti? “L’Italia vuole così bene alla Germania da volerne due”; nel suo stile, aveva centrato il segno. Se dal punto di vista economico l’Euro non è riuscito a neutralizzare l’egemonia tedesca, tanto da esserne divenuto lo specchio della politica monetaria, la NATO si è trasformata nel mero strumento di proiezione della potenza americana. Il numero di conferenze internazionali nei quali veniva discussa la nuova dottrina dell’Alleanza si perde, semplicemente perché una nuova dottrina non poteva essere adottata, a meno di non voler giustificare la realtà con una foglia di fico. Le prime a reagire al nuovo contesto internazionale sono state naturalmente le intelligenze strategiche dello stato maggiore. Da una forza che riuscisse ad attutire il colpo di un’invasione, almeno il tempo necessario a far scattare l’ombrello atomico, si è passati ad un modello di difesa di proiezione. Per l’Italia questo ha significato in soldoni la fine della leva obbligatoria, lo smantellamento di intere divisioni corazzate ed una rinnovata centralità di aeronautica e marina. La stessa cosa hanno fatto gli altri membri dell’Alleanza, americani compresi, che avevano però ben capito come le proprie forze in Europa, non più ostaggi a garanzia del pericolo sovietico, potessero essere utilizzate come punti avanzati e di proiezione della propria potenza. Sebbene infatti gli accordi bilaterali di stanziamento delle forze alleate siano adottati in ambito NATO, di accordi bilaterali comunque si tratta, non costituendone alcun impedimento all’impiego da parte del Pentagono. Dall’Italia, e senza alcuna necessità di autorizzazione “politica” e quindi democratica, transitano ed hanno transitato i più svariati mezzi per operazioni di guerra americane che nella hanno a che vedere con la dottrina NATO o con il coinvolgimento di qualsivoglia organismo dell’Alleanza, salvo poi coinvolgerla quando le cose si fanno difficili, come in Afghanistan, grazie a dottrine ad hoc fatte uscire fuori dal cilindro al primo vertice utile. Naturalmente, siccome la si fa ma non la si dice, anche l’incessante retorica americana sulla necessità che gli europei, Italia inclusa, aumentino almeno al 2% del PIL le proprie spese militari, risponde a questa logica. Gli europei devono investire di più per garantire la propria sicurezza, dicono, perché loro non lo possono più fare. Peccato che non lo stiano già facendo, e che tutto questo serva solo a mascherare agli occhi dell’opinione pubblica le reali motivazioni dietro la loro permanenza. Nessuno, meno che mai in politica internazionale, fa niente per niente, ma a volte sembra che ce ne dimentichiamo.
Per un’economia di grandi dimensioni ed in contesto globale, quale quella italia, la definizione di interesse nazionale possa spaziare ovunque nel mondo, ma questo è fuorviante. L’interesse nazionale italiano è saldamente ancorato al Mediterraneo e non passa per il Mar Baltico o le montagne dell’Hindukush; occorre però una seria riflessione nazionale su quali siano i mezzi adatti allo scopo e perseguirli, non certo essere corresponsabili dei massacri altrui consentendo il potenziamento di un’infrastruttura di morte su comando altrui come Camp Darby.
Francesco Renda
Segretario Federazione Livornese Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea
Rilanciamo, come contributo alla discussione in corso sulla situazione politica e sulle prospettive di Rifondazione Comunista, un contributo del compagno Gianluigi Pegolo del Comitato Politico Nazionale.
Aprire il confronto
In un articolo apparso su “il manifesto”, Il gruppo dirigente del PCdI, ha rivolto al segretario e agli iscritti del Prc un appello per l’unità dei due partiti. L’ha fatto sulla base di alcune argomentazioni: la gravità della condizione sociale, la presenza di un governo Renzi pericoloso, il venir meno di molti elementi di divisione presenti in passato nelle posizioni dei due partiti, la consapevolezza che si pone un problema più ampio di unità a sinistra, la necessità di dare un riferimento a quanti si richiamano al comunismo. Non è la prima volta che il tema viene posto, ed è stato oggetto di confronti anche aspri in passato, ma questa volta va attentamente considerato, anche in ragione delle novità della fase.
La mia posizione a tale riguardo è molto semplice: il confronto va accettato, senza astuzie e senza precondizioni. E in questo confronto va definita l’unità possibile senza limiti pregiudiziali. Questa mia convinzione muove da alcune considerazioni.
La prima: non è possibile che tutta la discussione a sinistra avvenga con l’assunzione dell’antiliberismo come unico riferimento. Chi risponde che nell’antiliberismo trova posto anche una critica anticapitalista e comunista, in realtà elude la questione, perché il problema è che in questi anni quel punto di vista è stato appannato da una ricerca dell’unità a sinistra su un minimo comun denominatore che ha, di fatto, azzerato il ruolo dei comunisti e di una critica anticapitalista. Dirò di più, per cercare a tutti i costi l’unità, si è cercato spesso il dialogo con soggetti animati da un livore anticomunista, mentre si è considerata l’interlocuzione con i comunisti e le forze anticapitaliste inessenziale o addirittura inopportuno.
La seconda considerazione: il processo unitario messo in campo fino a ora è tragicamente fallito. Qualcuno sostiene che si tratta di una momentanea battuta di arresto. A me non pare proprio. Quello che io vedo è, da un lato, Sinistra italiana e, dall’altro, un’Altra Europa per Tsipras, con dentro il PRC, in preda a una crisi evidente. Se in questa situazione il PRC non si assume la responsabilità di aprire interlocuzioni con altre forze, sia politiche che sociali, in grado di mettere in campo un valore aggiunto, rischia semplicemente o l’emarginazione totale o l’assorbimento subalterno nel progetto di Sinistra italiana. La crisi in cui versa l’Altra Europa per Tsipras e gli scivoloni opportunisti cui ogni tanto si assiste, dovrebbero dirci molto dei pericoli insiti nella situazione.
La terza considerazione: non è possibile dare una prospettiva vera a Rifondazione comunista se non si mette mano al partito, se non si riaggregano forze e non lo si fa diventare un vero protagonista della scena politica. E’ l’equivoco sul quale si reggono alcune declamazioni sull’importanza del partito, non accompagnate da un impegno adeguato e dal recupero di un vero protagonismo. Fa specie costatare che uno dei principali interlocutori assunti in questi anni da Rifondazione, e cioè SEL, rompe in un attimo l’unità, dà il via alla costruzione di un nuovo partito e si pone come leader in pectore di ciò che vi è a sinistra del PD. E il PRC che fa? Sta a guardare speranzoso o si pone il problema di rimettere in piedi un partito forte, di mettere in atto processi politici, di assumere un suo ruolo visibile, insomma di fare per davvero politica?
Per tutto questo, un segnale di ricomposizione dei comunisti (e non solo del PCdI) e delle forze anticapitaliste, sociali e non, va dato. Questo non significa certo finire in un politicismo simmetrico a quello fino ad ora praticato, illudendosi che origini comuni o storie comuni bastino. Siamo coscienti che nel corso di questi anni i percorsi, le pratiche e le posizioni si siano spesso divaricate. Inoltre, e’ chiaro che essenziale per l’unità sono le convergenze sulle scelte politiche immediate e di prospettiva e le pratiche sociali concrete. Su questo bisogna essere rigorosi, ma attenzione, quest’argomento non può diventare un alibi per eludere un confronto, magari per privilegiare rapporti con altri soggetti, anche molto ambigui, o per disconoscere la necessità di favorire la ricomposizione delle forze.
Senza il coraggio di cercare sintesi alte in un confronto più ampio, lo stesso ruolo di Rifondazione Comunista è destinato a impoverirsi e a divenire marginale.
Assoporti (Associazione Porti Italiani) è formata dalle Autorità Portuali, dalle Camere di Commercio I.A.A. dei territori portuali dalle Aziende Speciali Portuali, oltre che da Unioncamere (Unione Italiana delle Camere di Commercio I.A.A.)
Il 22 luglio si è tenuta l’assemblea generale di Assoporti, nel corso della quale dibattiti e tavole rotonde hanno affrontato i temi del futuro della portualità nazionale.
Linkiamo qui del materiale tratto dall’assemblea perché pensiamo sia utile a chiunque vuole approfondire un tema così centrale per lo sviluppo economico di Livorno:
Pensare l’Europa per pensare al futuro della città, lo chiede Lorenzo Cosimi (Prc) che insieme ad altri invita tutta la sinistra livornese ad unirsi per sostenere la candidatura alle europee di Alexis Tsipras, il politico greco che Rifondazione insieme al Consiglio dei Presidenti del Partito della Sinistra Europea ha proposto come candidato alla presidenza della Commissione Europea. Adesso chiede Cosimi, nasca un coordinamento di sostegno anche a Livorno. Ecco quanto si legge in una nota:
“Sosteniamo la candidatura di Alexis Tsipras: anche a Livorno!
Livorno e la sua Provincia possono conquistarsi uno sviluppo economico, sociale e culturale solo dentro un’Europa ed un Mediterraneo di pace, lavoro e cooperazione tra i popoli.
Viceversa dentro un’Europa delle banche e della grande finanza, dentro un Mediterraneo lacerato dalle guerre e dal sottosviluppo, non ha un futuro, sennò quello di essere una delle estreme periferie di quest’area con crescenti livelli di povertà e di disoccupazione e gravi rischi di arretratezza.
Per queste ragioni e consapevoli del prezzo della crisi che stanno pagando i lavoratori ed i giovani di questo territorio, vogliamo essere i promotori, insieme a tutta la sinistra livornese, ai movimenti di lotta, alle personalità della cultura, dell’associazionismo democratico e progressista della costituzione della lista italiana che sostenga la candidatura di Alexis Tsipras a Presidente della Commissione Europea.
Non c’è più tempo, costruiamo al più presto un coordinamento a Livorno ed in Provincia
Michele Mazzola (Comunisti italiani)
Ilaria Boldrini (Azione Civile)
Lorenzo Cosimi (Rifondazione Comunista)
Marco Sellitto (Movimento per il Partito del Lavoro)”
Si sta avviando a Livorno un primo tentativo di ricomposizione della sinistra che vede impegnati – per adesso – Rifondazione Comunista, Comunisti Italiani, Movimento per il Partito del Lavoro, Azione Civile e un gruppo di individualità impegnate nel sociale, nella cultura, nel lavoro e nelle professioni.
E’ un cammino aperto al confronto ed alla adesione di tutti coloro che si riconoscono nei valori della sinistra e del lavoro.
Il primo impegno deve essere quello di presentare la lista italiana a sostegno della candidatura di Alexis Tsipras alla Presidenza della Commissione Europea che ha bisogno anche a Livorno di raccogliere centinaia di firme.
Sul piano locale, prendiamo atto che il tentativo di ascolto senza pregiudiziali verso il centro-sinistra non ha sortito alcun effetto.
In modo sempre più evidente manca qualsiasi elemento di discontinuità sui programmi, sul metodo, sulle alleanze (come dimostra l’allargamento alle componenti moderate legate ad una visione superata e fallimentare di governo della città) fino alle stesse proposte di candidature.
Mentre la città per la crisi che sta attraversando avrebbe bisogno di una svolta profonda che la coalizione di centro-sinistra non è in grado di garantire.
Anche a Livorno c’è quindi la possibilità da parte di un fronte ampio della sinistra di tenere aperta questa necessità di cambiamento, di cui devono essere parte SEL e le realtà associative che in questi mesi hanno mobilitato energie ed idee importanti.
* Partito della Rifondazione Comunista, Partito dei Comunisti Italiani, Movimento per il Partito del Lavoro, Azione Civile